A sette anni di distanza Cat (pardon, Yusuf) e il sottoscritto hanno ovviamente sette anni di più. Così come ha superato i 45 anni d’età la Suite dello Straniero. E io mi emoziono come la prima volta ogni volta che la sento, la suite. Soprattutto la magica parte finale, tanto che, quando capita sul mio lettore in macchina, spesso metto il “repeat” e godo ad libitum.
La prima volta che ho visto Cat Stevens è stata nel 1970 a Londra, nella trasmissione televisiva “Top of the pops”. Indossava una maglietta bianca e blu a righe orizzontali e cantava accompagnandosi alla chitarra Lady d’Arbanville, il singolo dal suo terzo album, Mona Bone Jakon. Rimasi decisamente colpito. Nulla comunque in confronto all’effetto che mi fece l’album successivo e poi quello dopo e poi gli altri. Fino a Foreigner.
Non è facile scegliere l’album più bello tra tutti quelli di Cat Stevens, in una carriera breve ma intensissima. Ma siccome qui non si tratta di scegliere il più bello quanto quello che mi ha colpito di più, scelgo senza alcuna esitazione Foreigner, anche se nel complesso è forse meno bello di Tea for the Tillerman o di Teaser and the Firecat, che hanno al loro interno canzoni colossali ( Ne cito solo alcune: Wild world…
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