Il sorriso di mia madre. Sempre meno, ma lo ricordo ancora. E anche le sue lunghe mani.
L’unica volta che mio padre ha alzato le mani (anzi, il piede) su di me, che giocavo a pallone di sera nonostante avessi appena avuto la febbre alta.
Il trenino della Val di Fiemme, e noi che mettevamo una moneta da 20 lire sui binari davanti a casa per vedere che cosa succedeva.
La domenica pomeriggio a casa dei nonni in Via Dandolo e nonno Enrico con la sua giacca da camera rossa e nera (o era color cammello?).
La casa di Via Catania, con la stanza del trenino (di papà), tutto rigorosamente made by Märklin.
Le domeniche in trattoria all’Impiccetta, in via dei Fienaroli, dove c’era una signora che assomigliava a nonna Maria. E poi quelle all’Angoletto, in via della Luce, col padrone che era sardo.
A Torvajanica la trattoria del Corsaro, un omone genovese coi baffoni e senza un dito.
Quella volta che da Corsetti scendendo le scale incrociai una giovane e bellissima Jane Fonda ma me ne resi conto solo arrivato in spiaggia.
La sera che al Folkstudio Francesco prese la mia chitarra per suonare “Bene”, che aveva appena composto.
Le notti di Barcellona nell’estate del 1978, passate a “tapear” fino al mattino.
La terrazza del nostro appartamentino all’Imperial Hotel Tramontano di Sorrento, all’inizio degli anni sessanta, a picco sul Golfo.
Le interminabili notti del 1969 a Soho, al Kilt e alla Poubelle, con quegli stronzi dei disc jockey che non mettevano mai un lento.
Quell’agosto del 1980 (o era il 1981) nello studio di Place de l’Odeon a Parigi – quinto piano, cesso sul pianerottolo – in compagnia di un topolino e dei vari amici che mi vennero a trovare.
Il pomeriggio che Leonard Cohen suonò per noi studenti nell’aula 1 di Lettere.
Il volto, insieme stupito e commosso, di Pietro Ingrao la mattina del 23 marzo, dall’alto del palco del Circo Massimo, nel vedere quella incredibile marea di persone in piazza per i propri diritti.
I meravigliosi spaghetti pomodoro e basilico ordinati da mio fratello Angelo al rifugio Cengia. Praticamente perfetti.
La soddisfazione di trovare un porcino bellissimo sul sentiero dove era appena passato papà, lui che aveva occhi di falco, io che non vedevo mai niente…
All’uscita dalla scuola – la Fratelli Bandiera, vicino a Piazzale delle Province – un bambino mi indica a sua madre: “Vedi mamma, lui è quello che sa leggere, proprio come la maestra“. (Non so se un pezzo forte della propria mitologia personale può essere definito un ricordo…)
L’inimitabile tortino di carciofi di mia madre.
Le polpette delle donne Urbinati (a partire dalla nonna Angela).
Le crescentine (con il prosciutto e lo squacquerone) e i maccheroni al pettine della Peppina.
Lo strudel della signora Giorgina a Ziano.
La prima volta che bevvi vino, fino a ubriacarmi, a casa dell’ingegner Mosca a Settebagni. “In vino veritas”, biascicavo rivolto ai miei genitori, “e voi non potete dirmi niente…”. Chissà che cosa avrò mai detto…
Quella sera che con Antonio, a casa mia alla Trinità dei Pellegrini, avendoci gli altri co-bevitori dato buca, abbiamo aperto lo stesso otto – dicasi 8 – bottiglie di otto diversi Amaroni. Oddio, ad essere sincero, ricordo di averlo fatto, ma non ricordo nient’altro…
Quando il bagnino a Sorrento mi gettò in acqua dalla barca e mi disse: “Adesso nuota…”.
Le frustranti lezioni di nuoto con Oberosler nella piscina delle Suore di Nevers, con lui che ti urlava CONIGLIO se non seguivi alla lettera e subito i suoi ordini.
Quella mattina che con il suo inimitabile sorriso sulle labbra la zia Marcella mi insegnò la dinamica della respirazione nel crawl, quella che Oberosler con le sue urla non mi aveva mai fatto capire in tre anni.
La prima volta che ho fatto l’amore. Ero così agitato che non ci ho capito niente.
Il racconto di papà dei suoi ultimi giorni a Berlino nel settembre del 1943. Tutti i suoi colleghi d’ambasciata se ne andavano e più d’uno, salendo sul treno per Roma, gli diceva: “Galantini, non fare lo stronzo, vieni via anche tu”. Ma lui pensava che, prima di partire, doveva congedarsi dal suo superiore. Che però se n’era già tornato in Italia. Così restò. E la notte tra il 7 e l’8 la passò con un collega in ambasciata a distruggere documenti. Il mattino dopo vennero fatti prigionieri dai tedeschi.
I carciofi alla romana di Nonna Checca, la mamma di mio cognato Franco. Mai più mangiati così.
La cena delle cene a casa di Daniela nel 1996 con i vini di Antonio, tutti del 1982. E tra questi due in particolare: lo Chateau Palmer e l’incredibile Clos du Mesnil.
Le merende a Ziano con pane burro e zucchero.
Quando dormivo nella stessa stanza con mio fratello, con la fida colt al mio fianco. E ogni volta che la pistola cadeva per terra, lui si svegliava e s’arrabbiava.
La prima volta che sentii la parola “coglione”. Fu in montagna, su alla Malga Aie, ma mio padre e mio fratello mi dissero – avevo 9 anni e abboccai – che era una parola che si poteva dire solo sopra i 1800 metri d’altezza…
Mia madre che dice “Mi sa che questa volta ci lascio i zampetti” (il che in romagnolo dovrebbe voler dire “ci rimetto le penne”). In realtà non ricordo lei mentre lo dice, né esattamente quando lo disse (probabilmente fu dopo l’operazione per occlusione intestinale, quando dopo alcuni giorni ricominciarono a farle mangiare qualcosa e iniziò il crollo). Ma ricordo che lo disse. È diverso, è un ricordo più parziale e meno vivido. Ma è un brutto ricordo lo stesso.
Le corse lungo il corridoio infinito di Via Dandolo: si partiva dalla porta dell’allora stanza da pranzo dei nonni e si accelerava fino all’ingresso della zona di servizio. Lì cominciava la scivolata fino al muro della dispensa.
Le pizze da Rugantino, con Francesca e Massimo, e il cameriere con i capelli grigi e il “tirabacio”.
Quando ci allargammo a Via Pallavicino anche nell’altro appartamento al quarto piano: tutto quello spazio ma non c’era più mamma.
La sera prima dell’operazione all’anca, quella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1967, nella stanza al Rizzoli, che la zia Marcella mi fece ridere fino all’esaurimento, per cacciare indietro la paura che m’invadeva.
Il primo bacio nell’autunno del 1969 con F. al Tempio di Vesta, sul retro, scavalcata la ringhiera in cerca d’intimità. Io ero un po’ preoccupato ma E. mi aveva detto: “Se sei deciso, lei non si accorgerà che per te è la prima volta”. E lei non se ne accorse. Credo. Quattro anni dopo, sempre con F., feci anche l’amore per la prima volta. Probabilmente se ne accorse, che per me era un esordio. Ma non me ne preoccupai più di tanto…
Le altre merende a Ziano con pane e olio.
La prima fettunta all’Impruneta con il cavolo nero ripassato. Indimenticabile.
Le prime infiorescenze di broccoletti all’olio e di cavolo nero. Così, cotte al vapore, olio e sale e via. Indimenticabili pure loro.
Quella volta che tornando a casa, a via Giorgio Pallavicino, mentre con mamma attraversavamo la strada – io avrò avuto quindici-sedici anni – da un bus che passava una ragazza si sporse e gridò a mia madre: «Signora, grazie per suo figlio!». È stata la prima volta che mi sono sentito, se non bello, almeno non proprio un cesso.
La sera che nel 1984 andai con S. a vedere Voglia di tenerezza al Metropolitan di Roma. Tutti nel cinema singhiozzavano. Io me ne stavo lì, con un groppo alla gola grande così, ma con l’occhio dilatato per non sciogliermi in lacrime. Quando S. mi lasciò a Piazza Trilussa (ero da poco andato a vivere da solo alla Trinità dei Pellegrini), la salutai, vidi la sua macchina allontanarsi sul Lungotevere e cominciai a singhiozzare come una vite tagliata. Camminavo su Ponte Sisto e piangevo, incurante degli sguardi dei passanti. Ho pianto fino a casa e anche dopo. Quella fu una delle notti più bagnate della mia vita.
(continua…)