Ieri mattina ce l’ho fatta. Sono arrivato a Catino a piedi dal bosco. Tutto era cominciato in un modo un po’ strano. Ero salito in macchina fino al Bottino sopra san Valentino, là dove finisce la strada asfaltata. Dove parcheggio di solito c’erano già due macchine. Allora sono salito un po’ più in alto, sulla strada bianca e un po’ sconnessa. C’era già una macchina parcheggiata qualche metro sopra, una vecchia Mercedes, l’ho superata e, dopo aver rigirato il muso della Duster verso la discesa, ho parcheggiato qualche metro dietro l’altra macchina. Sono sceso, mi sono messo gli scarponi da montagna, li ho allacciati con attenzione, ho preso le bacchette, fatto partire l’app che misura la passeggiata e, scendendo verso il bottino, ho detto un timido buongiorno all’uomo dentro la Mercedes parcheggiata, che mi ha guardato con lo sguardo di un laziale che, dopo aver raggiunto finalmente l’agognato pareggio nel derby, si vede riportato sul 2 a 1 dal gol di Kolarov e sa di avviarsi inesorabilmente verso la sconfitta.
Pochi metri in discesa, dunque, e poi dal Bottino inizia la salita verso la Crocetta. Avevo in testa le parole di Fernando ieri mattina stessa, mentre pigliavamo un caffè: se vuoi andare a Catino dalla Crocetta devi scendere giù ai castagni, prendere il sentiero a sinistra e poi andare sempre a sinistra. Per uno moderato come me forse erano indicazioni troppo “guevariste”, ma quando parla un vecchio saggio come Fernando, che su quei monti ci ha passato tutta la giovinezza, bisogna dargli retta. Così ho fatto e per un’oretta circa sono salisceso nel bosco, in un sentiero a mezza costa bello e riconoscibile. Ogni tanto pensavo a quel tipo con lo sguardo da laziale frustrato e sorridevo tra me e me.

Il sentiero nel bosco
A un certo punto il sentiero si è fatto ripido e sassoso. Ho avuto la tentazione di tornare indietro (anche perché, sulla cartina della App, quel sentiero avrebbe solo sfiorato quello che poi dovevo prendere per arrivare a Catino e l’idea di rifare quella discesa scoscesa in salita non mi sorrideva) ma poi lo spirito del buon vecchio Galantini Jones ha prevalso e sono andato avanti. In effetti al termine della discesa c’era un fosso assai profondo che divideva le due coste e i due sentieri, ma c’era anche ponte e così sono andato al di là del fosso. Oramai il dado era tratto e dentro di me una voce disse, garibaldinamente, “O Catino o morte” (si fa per dire, naturalmente).
Al di là del ponte c’era una carrareccia che pareva costruita apposta per permettere alle solite teste di cazzo di gettare quintali di rifiuti nel dirupo (la nostra è una specie condannata, l’ho già scritto). L’ho seguita per un po’ poi ho preso una traccia di sentiero in discesa, piena di ostruzioni e impedimenti (dagli alberi caduti ai rampicanti spinosi che si avviluppavano intorno alle gambe: ma io previdente avevo con me una cesoia…) traccia che portava al sentiero, anch’esso un po’ malmesso e scarsamente frequentato, che secondo la mappa mi avrebbe condotto alla meta agognata. E infatti, dopo una decina di minuti percorsi con molta molta attenzione, ecco la sagoma inconfondibile della torre pentagonale di Catino e della Rocca.
Ho trattenuto a stento la voglia di gridare in un empito orgasmatico che, chissà perché, mi ha fatto pensare al tipo con lo sguardo da laziale scornacchiato. Ho fatto gli ultimi metri, sempre con molta molta cautela (il sentiero era appena riconoscibile) ed ecco la meta tanto desiderata in tutto il suo splendore.
Ora, dovete sapere che di solito sono prudente quando passeggio, misuro le forze, cerco di non esagerare, soprattutto quando sono da solo. Ma ieri era tanta la voglia di quadrare il cerchio, di utilizzarlo, quel passaggio a Nord-Ovest nei boschi, che ho sottovalutato il fatto che da Catino sarei dovuto poi tornare alla macchina. In realtà il problema l’avevo avuto ben presente ma l’avevo bypassato dicendomi che avrei chiesto a qualcuno un passaggio per tornare a san Valentino: potevo chiederlo a mia moglie, che non avrebbe avuto problemi a venire a prendermi da casa, lo sapevo, o a un’amica che abita proprio a Catino, o ad altri amici che stanno lì vicino.
Ma alla fine della fiera, un po’ perché si era fatta l’ora di pranzo e non volevo disturbare, un po’ perché inconsciamente non volevo sprecare l’ora di gloria appena vissuta con un’ammissione di debolezza (ma quanto sei scemo Enrico…) alla fine sono tornato alla macchina camminando sulla strada Finocchieto. E non sono stati tanto i cinque chilometri da Catino all’inizio della salita di San Valentino, che ho percorso baldanzosamente (si fa per sempre per dire…) in un’ora. No, il peggio sono stati i due chilometri e rotti finali fino alla macchina, con 250 metri di dislivello: una pendenza media superiore all’11 per cento con molti tratti al 20. Un’iradiddio che fa sì che ancora stamattina io mi senta “un po’ stanchino” (per dirla alla Forrest Gump).
Un cimento che m’impediva persino di sorridere al pensiero del “laziale”, della sua espressione e della mia ingenuità. Adesso posso dirvela tutta: solo dopo essere passato accanto alla macchina e aver detto il mio timido “buongiorno”, a lui che aveva quell’espressione un po’ così, solo allora mi sono accorto con la coda dell’occhio dei capelli biondi della signora con la testa affondata nel grembo di lui, interrotta sul più bello dal passeggiatore, distratto seppur cortese.
P.S. Ecco la mappa del giro fatto, ritoccata da me in quanto il telefono era “morto” poco dopo aver iniziato la salita finale. Undici chilometri e mezzo, 600 metri di dislivello, quattro ore per farlo. Sono contento di averlo fatto, questo giro. Non credo che lo rifarò molto presto.