Le Aie, istruzioni per l’uso

Come faccio a spiegare che cosa significano “le Aie” a chi non è uno di noi Galantini (ramo Eugenio), di nascita o per lunga frequentazione? Che cosa c’è di così bello in una lunga passeggiata per i boschi dei Lagorai fino a una malga a quasi duemila metri d’altezza, un’ascesa che verso il finale ha una pendenza importante e che ogni tanto concede qualche sprazzo di bei panorami lontani quando il bosco si fa meno fitto, a Est il Sassolungo, il Piz Pordoi e anche la Marmolada (lato roccia); a Ovest i monti del Brenta, Adamello, Presanella, Ortles? Qual è il suo fascino rispetto a, che so, l’ascesa al Rifugio Comici dal Fondovalle in Val Fiscalina o la salita a uno dei rifugi del Catinaccio o una passeggiata sotto le cime altissime della valle Aurina?

Verso le Aie. A ovest Cavalese e in lontananza i monti del Brenta. Sotto, a Est, Predazzo e in lontananza il Sasso lungo e, tra due montagne in primo piano, il versante Sud, quello roccioso, della Marmolada

In termini assoluti, devo essere onesto, non c’è nessun paragone possibile. Tutte le passeggiate che ho citato sono incomparabilmente più belle ed evocative, con quelle rocce incredibili che incombono su di te e l’occhio che instaura un rapporto quasi fisico con l’ambiente che ti circonda. Ma per noi quando dici “Aie” entra in gioco la memoria e allora è tutta un’altra storia. Quella fino alla malga per noi è LA CAMMINATA. E lo è da quando mio padre iniziò alla metà degli anni cinquanta, salendo prima con mia madre, poi con mio fratello e alla fine, l’ultimo anno delle nostre vacanze estive trimestrali a Ziano, anche con me: doveva essere il 1964, di sicuro era il 17 settembre e lassù, proprio mentre stavamo arrivando alla malga, iniziò a nevicare. Entrammo, papà accese il fuoco, mangiammo salame a tocchi, bevemmo vino rosso (allora ero astemio) e venni introdotto ad alcune parolacce – tipo: coglione – il cui uso però, mi spiegò il mio genitore, era consentito solo sopra i 1.800 metri d’altezza. Fu la prima volta – e insieme una delle ultime – che mi sentii “grande”. Mitopoiesi allo stato puro.

Questa volta salire è stato duro. Il tempo più o meno è stato quello di sempre: tre ore e dieci minuti, rispetto alle tre ore canoniche. Eravamo partiti – colpa mia – con un ritmo esagerato. Mi sentivo bene e pensavo, magari scendiamo sotto le tre ore e c’è la possibilità di arrivare anche ai Laghetti, duecento metri e un’ora più su. Ma dopo il primo tratto sprint, quando siamo entrati nel bosco per la classica scorciatoia che ci avrebbe portato ai Malgari, la tappa di metà strada, là dove inizia un sentiero in piano di alcuni chilometri, il paradiso dei cercatori di funghi, entrati nel bosco ci siamo resi conto degli sconvolgimenti portati da Vaia, la tempesta di due anni fa. Il sentiero non c’era più: o meglio, c’era ma era talmente disastrato, con tronchi e ceppaie che lo vendevano impraticabile, che abbiamo perso un sacco di tempo rischiando di farci male e sbucando sul sentiero buono un bel po’ più in basso del dovuto. Queste due cose, l’avvio sgarzulino e la trappola nel bosco, hanno fatto sì che perdessimo il ritmo e che gli ultimi duecento metri di dislivello, là dove il sentiero arrampica davvero, siano stati molto molto difficili. Io di per mio mi sarei anche arreso. A me piace provare ma so anche dire basta quando non gliela faccio più. Ma mio cognato Franco è uno tosto e non molla mai. E la testa conta più della stanchezza delle gambe. Così alla fine siamo arrivati.

Ecco il percorso, i nostri 18 chilometri nel bosco
Ed eccoci alle Aie. Pubblico un selfie fatto qualche minuto, dopo l’arrivo, almeno dieci, ché quello scattato subito è quasi improponibile nella sua drammaticità (scherzo, ma non troppo…)

Uno dei miei film di culto – The warriors di Walter Hill, che in italiano divenne I guerrieri della notte – finisce con i ragazzi della banda, i Warriors appunto, che riescono, dopo una notte folle in cui sono stati inseguiti da tutte le bande di New York, a tornare a casa, a Coney Island. E quando arrivano uno dei protagonisti chiosa: “Tutta questa fatica per tornare qui?”. E in quel “qui” c’è una nota tra il dubbio e lo sconforto…

Ho una confessione da fare. Quando arrivo alle Aie, specie così distrutto, una vocina mi dice più o meno la stessa cosa. Ma io non gli do retta. Io sono un Galantini (ramo Eugenio). Fino a che avrò la forza di provarci tornerò lassù, sotto il cielo e il silenzio dei Lagorai. Ogni volta che potrò. Perché un rito non si discute, si celebra.

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