Parole dalla terapia intensiva

Premessa: la mia è stata una terapia intensiva “soft” rispetto a quella che vediamo negli spezzoni, di repertorio e no, dei tg e dei talk show (per questi ultimi dovrei aggiungere “immagino”, visto che da mesi e mesi non ne guardo e non mi mancano). Lo è stata perché era la piccola unità di una clinica privata romana, in primis; e, in secundis, perché io non stavo così male (non ero intubato, insomma, anche se non è che stessi rose e fiori): era previsto, più che altro a livello precauzionale, che ci passassi almeno una notte dopo l’operazione e in effetti ce ne ho passate due.

Unknown tiMolte cose le ho dimenticate, di quelle quaranta ore passate tutto monitorato in quel letto, con sensori e tubicini che uscivano da ogni parte e gli infermieri che venivano a controllarti ogni due per tre. Ma non ho dimenticato due parole che ho orecchiato nell’occasione. Una è «cruenta», che poi sarebbe la cannula che ti mettono nell’arteria al polso ( per fortuna me l’hanno messa quando ero già bello che anestetizzato perché deve fare un bel po’ di male se te la mettono da sveglio) per monitorare in diretta la pressione attraverso un altro apparecchio che lì chiamavano «Gabarit» (nome che non ho ritrovato su Google ma che a me pare fosse proprio quello, visto che mi ricordava la cassetta-sciacquone infilata nel muro che ormai ha preso il sopravvento sulle più pratiche e intelligenti cassette esterne). Questo Gabarit aveva la caratteristica di emettere ogni 45 secondi circa una specie di suono di clacson, che doveva voler dire – immagino – che il paziente era ok. Ma immaginatevi una notte con un affare che ogni quarantacinque secondi ti suona nell’orecchio. Sarai pure ok, ma certo non dormi.

Così quando la seconda notte l’ambaradam del simil-clacson è ri-iniziato, è stata la volta che ho quasi perso la pazienza e ho detto all’infermiere della notte, un bravissimo ragazzo albanese, che se non avesse sistemato in qualche modo le cose avrei, all’indomani, scritto una lettera alla direzione sanitaria per protestare (e mentre lo facevo mi ricordavo mio padre e le sue lettere ai giornali…). Non per protestare contro di lui, ovviamente, ma contro questa noncuranza sistemica. E in effetti la mia piccola protesta ha sortito gli effetti desiderati. L’infermiere si è messo ad armeggiare sulla macchina (cosa che una giovane infermiera la notte prima non aveva saputo o voluto fare: sì, avevo protestato timidamente e debolmente anche la notte prima) e ha trasferito il clacson nella stanza da cui loro potevano evidentemente tenere tutto sorto controllo. E io, a pezzi e bocconi, qualcosa dormii.

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