Tra mia nipote Giulia e il sottoscritto, quando gioca la Roma, c’è un filo diretto via Whatsapp o Messenger. Lei a Los Angeles, California, io a Montopoli, Sabina. E tra insulti (irriferibili) agli arbitri e amare considerazioni sulla pochezza di certi giocatori giallorossi, l’espressione che torna più spesso, in occasione di un gol fatto o di una bella fase di gioco (dunque negli ultimi tempi un po’ di meno…), espressione accompagnata da un bel po’ di punti esclamativi, è proprio quel “daje” che i romani tributavano a Calandrelli e alla sua artiglieria quando sparavano ai francesi. Certe cose sono evidentemente nel dna…
Non sono nato a Roma (per caso). Non vivo più a Roma da oltre dieci anni (per scelta). Ma mio padre era romano da sette generazioni, io mi sento romano e sono orgoglioso di esserlo. Soprattutto quando mi capita di leggere episodi come quello che racconta Giuseppe Monsagrati nel suo bel “Roma senza il Papa”, sulla vicenda della Repubblica romana del 1849.
Racconta dunque lo storico, a proposito dello spirito giocoso e disincantato del Popolo dell’Urbe, della “presenza corale sul Pincio, sull’Aventino, e a ridosso del Gianicolo”, che “prende quasi le forme del moderno tifo con quel «daglie Calandrelli daglie» gridato al concittadino che con un’artiglieria non certo d’avanguardia riesce comunque a tenere a bada il nemico”.