«In genere noi giovani non siamo tanti bravi a non comportarci da stronzi tra noi. Invece mi sa che avendo avuto a un certo punto dei soldi, e poi avendoli persi, e avendoli riavuti e ripersi di nuovo, le persone di una certa età dicono tipo: Ma ‘sticazzi, io un sorriso lo faccio. Forse sono semplicemente troppo stanche per essere cattive».
Ho appena finito di leggere Friday Black di Nana Kwame Adjei-Brenyah, edito da BigSur. «Un esordio incredibile, una voce nuova e necessaria» dice il New York Times nello strillo di copertina. Adjey-Brenyah ha studiato con George Saunders all’Università di Syracuse, dove oggi insegna a sua volta scrittura creativa.
Sono tredici i racconti pubblicati in questo libro. Molto belli, molto tosti, ognuno a modo suo un incubo (ma in fondo al tunnel ogni tanto c’è anche un po’ di luce), con “tagli” sempre molto originali e una gran qualità di scrittura, come potete vedere nel piccolo esempio che ho riportato come incipit di questo post. I più belli sono il primo e l’ultimo (l’ultimo soprattutto, ambientato in un mondo postnucleare che vive in una sorta di loop, è di una potenza rara) .
Un vero scrittore è chi sa costruire un mondo con le sue parole. I mondi di Adjey-Brenyah sono spesso sgradevoli e urticanti e non vorresti certo scegliere di viverci dentro. Ma potrebbero esistere e a volte esistono (sulla carta e spesso non solo). Passarci, anche se solo per il breve tempo della lettura, è un’esperienza che fa bene, che apre gli occhi.