«L’intima poetica delle ballate di Marco (…) ha lasciato un solco profondo nella canzone d’autore degli anni ’70, spingendosi più il là delle Colonne d’Ercole rappresentate in quel periodo da Tim Buckley e Nick Drake, arrivando a tracciare un’inedita semantica musicale per tutte le sfumature del nostro mondo interiore ed emotivo». Questo commento (non sollecitato e per questo tanto più gradito) del mio amico Sergio M., detto The Voice, grande conoscitore di musica e non solo, al mio post su quella che fu, a tutti gli effetti, una meteora nel firmamento musicale italiano degli anni settanta (c’è chi darebbe un occhio per avere copia delle incisioni da lui realizzate in quel periodo, ma lui giura di non sapere più dove si trovino e nemmeno se esistano ancora) mi spinge a ribloggare questo ricordo, scritto esattamente sette anni fa. Avevo, allora, 59 anni. E non permetterò a nessuno di dire che questa è la migliore età della vita…
Marco aveva 12-13 anni quando gli regalarono la prima chitarra. Non aveva mai dato prova di un qualche talento musicale, ma certo amava la musica. Sta sempre lì ad ascoltare quei dischi, pensò sua madre, imparare a farla, la musica, certo non gli può far male.
Il suo primo (e ultimo) maestro fu un compagno di scuola di suo fratello. Si chiamava Peter Lloyd ed era un ragazzone (inglese trapiantato a Roma) di oltre un metro e ottantacinque che pesava circa un quintale. Di muscoli: era cintura nera di judo e di karate e suonava per mantenere sciolte le mani. Gli insegnò, sia pure rudimentalmente, a leggere la musica. Più che altro gli spiegò a quali note sulla tastiera corrispondessero quei pallini sul pentagramma. Assai poco gli fece capire sulla durata delle stesse note: crome, semicrome, biscrome gli entravano da un orecchio e gli uscivano dall’altro. Poi…
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