Storia di un non musicista

Marco aveva 12-13 anni quando gli regalarono la prima chitarra. Non aveva mai dato prova di un qualche talento musicale, ma certo amava la musica. Sta sempre lì ad ascoltare quei dischi, pensò sua madre, imparare a farla, la musica, certo non gli può far male.

Il suo primo (e ultimo) maestro fu un compagno di scuola di suo fratello. Si chiamava Peter Lloyd ed era un ragazzone (inglese trapiantato a Roma) di oltre un metro e ottantacinque che pesava circa un quintale. Di muscoli: era cintura nera di judo e di karate e suonava per mantenere sciolte le mani. Gli insegnò, sia pure rudimentalmente, a leggere la musica. Più che altro gli spiegò a quali note sulla tastiera corrispondessero quei pallini sul pentagramma. Assai poco gli fece capire sulla durata delle stesse note: crome, semicrome, biscrome gli entravano da un orecchio e gli uscivano dall’altro. Poi un giorno Peter gli disse: più di questo non posso insegnarti e lo lasciò continuare da solo.

Foto di Piero (“lo smisurato”) Togni

Marco cercò di andare avanti. Rifaceva gli esercizi del Carulli, provò a suonare un po’ di musica rinascimentale per liuto, fece qualche progresso, ma poca roba. Per anni andò avanti così. Poi un giorno si mise lì, con la chitarra tra le mani e provò a scrivere una canzone. Tre-quattro accordi, un arpeggio abbastanza efficace anche se elementare, una melodia alla portata della sua voce incerta e la canzone era lì. Ci prese gusto e ne scrisse altre. Era il 1974, Marco aveva 21 anni, i capelli mediamente lunghi e la barba, e cominciò a frequentare il Folkstudio. La domenica pomeriggio, lì in Via Sacchi, c’era uno spazio aperto a tutti. Un giorno Marco vinse il terrore che provava e chiese al patron di esibirsi. Cesaroni sorrise e gli disse “va bene”. Lui si mise lì con la sua chitarra e quando il patron gli fece cenno salì sul palco. Biascicò due o tre parole e poi iniziò a suonare. In qualche modo arrivò fino alla fine e quando scese tra qualche applauso svogliato era un cantautore. In quei giorni fece amicizia con altri “artisti”. Uno di questi, un artista senza virgolette, è per lui  ancora oggi quasi un fratello.

Scriveva canzoni di continuo. Una volta, impappinatosi durante un’esibizione, si rivolse al pubblico dicendo: “Scusate, ho appena finito di scriverla”. Per fortuna nessuno fece commenti. Ma a un certo punto, due o tre mesi dopo, arrivato a quota 33 o 34 canzoni, mediamente funeree, l’ispirazione finì. Aveva esaurito gli accordi e le melodie. Un giorno, mentre stava per prendere il primo accordo, udì due ragazze che dicevano: “Ecco quello che canta come De Gregori”. Riuscì a finire il pezzo ma fu l’ultima volta che salì su quel palco.

Adesso, più di trent’anni dopo, quando ogni tanto imbraccia la chitarra gli sembra lo strumento di un altro. Prova a fare delle scale ma persino gli esercizi del Carulli sono diventati insormontabili. Le sue canzoni le ha dimenticate quasi tutte. I capelli sono un ricordo lontano. La barba no, ma è diventata bianca.

Marco ovviamente non si chiama Marco.

6 pensieri su “Storia di un non musicista

  1. L’intima poetica delle ballate di Marco (…) ha lasciato un solco profondo nella canzone d’autore degli anni ’70, spingendosi più il là delle Colonne d’Ercole rappresentate in quel periodo da Tim Buckley e Nick Drake, arrivando a tracciare un’inedita semantica musicale per tutte le sfumature del nostro mondo interiore ed emotivo.

  2. L’ha ribloggato su enricogalantinie ha commentato:

    «L’intima poetica delle ballate di Marco (…) ha lasciato un solco profondo nella canzone d’autore degli anni ’70, spingendosi più il là delle Colonne d’Ercole rappresentate in quel periodo da Tim Buckley e Nick Drake, arrivando a tracciare un’inedita semantica musicale per tutte le sfumature del nostro mondo interiore ed emotivo». Questo commento (non sollecitato e per questo tanto più gradito) del mio amico Sergio M., detto The Voice, grande conoscitore di musica e non solo, al mio post su quella che fu, suo malgrado, una meteora nel firmamento musicale capitolino negli anni settanta (c’è chi darebbe un occhio per avere copia delle incisioni da lui realizzate in quel periodo, ma lui giura di non sapere più dove si trovino e se esistano ancora) mi spinge a ribloggare questo ricordo, scritto esattamente sette anni fa. Avevo, allora, 59 anni. E non permetterò a nessuno di dire che questa è la migliore età della vita…

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