Visto che questo è il post numero 100 di questo blog, come solertemente mi viene ricordato dal blog stesso, lo dedico all’album che forse più di ogni altro potrei definire “della mia vita”. Ho già detto dei miei cambi di traiettoria da un genere all’altro, che per fortuna poi, alla fine, hanno portato un segno più e non un meno nella mia vita, nel senso che ora ascolto tanta musica, di tutto e di più, godendo di ciò che è bello al di là delle definizioni. Ma non è sempre stato così. Ai tempi dei miei innamoramenti musicali, ero uno stupido ragazzo un po’ manicheo: un genere scacciava l’altro, la musica barocca non poteva coesistere con il progressive.
Anche allora comunque c’erano eccezioni. C’erano dischi che ho sempre portato con me. Tra questi, Pink moon di Nick Drake (ma anche gli altri dischi, soprattutto il secondo, Bryter Layter, di questo artista introverso e profondissimo). Non starò qui a rievocarne la vita (vedi a proposito il link) peraltro brevissima: morì a 26 anni per un overdose di un antidepressivo. La musica basta e avanza. E in questo Pink moon, terzo e ultimo album registrato in vita, con la sua essenzialità scarna (ci sono solo la sua chitarra e la sua voce, e un po’ di piano sovrapposto nel brano che dà il titolo all’album) ma con la sua ricchezza di suggestioni, di musica ce n’è un mondo. E anche di più.
Negli anni Nick Drake è diventato quello che si definisce un artista di culto. Un po’ la leggenda sulla sua morte (fu o no suicidio?) un po’ il mito dell’artista morto giovane, ma soprattutto la qualità delle sue canzoni, il timbro della sua voce e quel suo modo personalissimo di raccontare il suo mondo. Oggi la schiera dei suoi fan è assai diffusa. Ma all’epoca pochi lo apprezzavano. I suoi dischi passarono quasi inosservati. E la depressione, quel black eyed dog di cui parla un pezzo postumo, uscito in un album intitolato Time of no reply, se l’è portato via.