Ciao Fernando

La prima volta che ho scritto di Fernando su questo blog risale a quasi sette anni fa. Ma allora non lo chiamavo per nome e ci davamo del lei. Eravamo vicini di casa da anni ma non si andava oltre al buongiorno o buonasera, fino al giorno in cui Ragù entro nel suo terreno e sgozzò una pecorella, piccola, che aveva poco più di un mese. Lui venne a suonarmi al citofono, sotto la pioggia, giustamente incazzato. Io ci rimasi di merda, ovviamente. Un paio di mesi dopo gli portai un’altra pecorella a mo’ di risarcimento, come appunto ho raccontato in quel primo post. Allora lo chiamavo signor Polidori, lui mi chiamava signor Enrico.

Stamattina, portando Chicca a fare la solita passeggiatina ad espletandum, dopo una settimana circa di assenza per infreddatura, davanti al cancello di casa sua ho incontrato la figlia che mi ha chiesto se sapevo e, davanti alla mia espressione: non sapevo, ma intuivo, mi ha detto che sì, suo padre era morto, lunedì, all’ospedale di Rieti. I funerali c’erano stati ieri, a Poggio. Non mi avevano avvisato perché, non vedendomi passeggiare ogni mattina davanti a casa, avevano pensato fossi fuori.

Ci sono rimasto malissimo. Volevo bene a Fernando. Era un amico speciale. Una persona stupenda. Con il suo sorriso aperto e la sua saggezza popolare – amavo i suoi proverbi, il fatto che per ogni occasione ce ne fosse uno, che di solito non conoscevo, a partire da quel “C’è chi disegna e chi squadra” che per me è stata una grande lezione di vita. Con il suo senso dell’ospitalità e del condividere – quanti caffè ci siamo fatti la mattina, seduti all’ingresso di casa sua, con Chicca che razzolava in giro con i suoi cani. Con i suoi 85 anni ben vissuti che però l’ultimo anno gli impedivano di camminare come avrebbe voluto.

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Se n’è andato abbastanza in fretta. Ricordo che a settembre stava bene ma alcuni esami del sangue lo avevano preoccupato (dopo un’adolescenza da pastore in montagna a San Valentino, aveva lavorato tutta la vita come infermiere in una clinica di Roma) sulla possibile insorgenza di qualche tumore, magari del sangue. Guardandomi, e con un tono che mascherava la preoccupazione sotto il sorriso, mi aveva detto: «Che dici, Enri’, lo mangerò il panettone quest’anno?» Ma alla fine è stato il cuore a fermarlo. A dicembre altre analisi suggerivano il ricovero per fare altri esami. Venne fuori che c’erano problemi seri alla valvola mitralica. Una patologia oggi operabilissima ma Fernando non era in condizione di affrontare un’operazione. L’ho rivisto quando tornò a casa la prima volta. Era un altro. Molto dimagrito e senza più voglia di vivere. «Non gliela faccio più» fu l’unica cosa che mi sussurrò. Poi un paio di ricoveri in ospedale, fino all’ultimo.

Ciao Fernando, questa valle che amavi tanto non sarà la stessa senza te. Ma io continuerò a vederla attraverso le tue parole, i tuoi ricordi. Vorrei averle registrate, come ci eravamo ripromessi di fare. Ma, come mi hai insegnato tu, c’è chi disegna e chi squadra.

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