L’inglese allora non lo parlavo bene (neanche adesso a dire il vero, ma adesso lo comprendo un po’ di più; parlare una lingua si sa, è un’altra cosa…) ma in fondo non mi sembrava così importante capire il testo delle canzoni: c’era già la musica che era così tanto. Epperò i primi due versi di Suite Judy blue eyes fotografavano bene, anche se per vie traverse, la mia situazione di allora: «It’s getting to the point where I am no fun anymore, I am sorry/ Sometimes it hurts so badly I must cry out loud, ‘I am lonely.’»
Londra era bella in quel luglio di quasi cinquant’anni fa. A pensarci bene, non so (non mi ricordo) se mi sono divertito davvero. Ma ci ho provato, ci ho provato fino in fondo.
L’estate del 1969 passai un mese a Londra con mio fratello Angelo e con il mio amico Eugenio. Avevo 16 anni e non permetterò a nessuno di dire che quello è il periodo migliore della vita. Certo, c’erano Carnaby Street, Portobello, King’s Road. C’era Honky Tonk Women dei Rolling Stones (quel 45 giri, che aveva sul retro You can’t always get what you want, è stato forse il più bello che abbia mai avuto) che veniva suonato a palla e a ripetizione nelle discoteche dove non mettevano mai un lento nemmeno a pagarli. C’era tutto questo e per un ragazzino di 16 anni, lasciato praticamente senza controllo – mio fratello aveva conosciuto una tipa di Roma in aereo e faceva la sua vita: io lo vedevo solo per chiedergli un po’ di soldi quando rimanevo a secco – era qualcosa di esaltante. Ma perché lo fosse al cento per cento…
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