Da quando ho scoperto che sono loro, le gazze, gli uccelli che girano le viti del mondo, le osservo con affetto quasi murakamiano. E loro, pettorute, panzone, con la macchia bianca e quella blu elettrica ad accompagnare il nero della livrea, sono presenti in abbondanza sul nostro terreno. Di solito sono solitarie, nel senso che ciascuna se ne sta per conto suo, a becchettare qui e là, a partire in volo all’improvviso, con quel volo pesante che fa loro sfiorare le cime dei muri, dei pali, degli alberi, evitando di sfrangervisi contro solo per millimetri (ci deve essere una Santa Pupa anche per le gazze… – e anche per chi scrive: “sfrangervisi” è una parola ad alto rischio, con quell’accento bisdrucciolo e le consonanti doppie se non triple). Ma ieri in cima al noce buono (quello giovane, che sembra stare bene, mentre l’altro ha cominciato il declino) ce n’erano due. A distanza di sicurezza, ma due.