C’è una scena bellissima nel romanzo che sto leggendo (Patria, di Fernando Aramburu, edito in Italia da Guanda), un romanzo che racconta la storia di due famiglie un tempo amiche divise dalla guerra dichiarata dall’Eta che per 40 anni ha insanguinato il Paese Basco e la Spagna. Non farò spoiler sulla trama, che del resto conosco parzialmente: ho superato da poco pagina 100, delle oltre 600 totali e ogni capitolo aggiunge una tessera al mosaico della storia che piano piano prende forma.
Mi piace lo stile di Aramburu, il suo mischiare passato e presente (se fosse una serie televisiva, a volte sarebbe difficile capire, così di primo acchito se quello che si sta leggendo è un presente narrativo o un flashback), la sua lingua (merito anche dell’ottima traduzione di Bruno Arpaia), la precisione con cui piano piano costruisce il plot e i caratteri dei personaggi attraverso le parole e le azioni di questi ultimi.
Nella scena di cui accennavo all’inizio, Xabier, medico, e membro di una delle due famiglie, va a trovare Arantxa, sua coetanea o quasi, che fa parte dell’altra famiglia. Tra di loro quando erano giovani c’è stato una fuggevole attrazione, un bacio durante una festa di paese e poco più. Arantxa è stata colpita da un ictus e sta facendo fisioterapia nell’ospedale in cui esercita Xabier. Lui dunque la va a trovare, le porta un pensiero, parlano (lei usa un iPad per comunicare) del più e del meno. Lui è trattenuto come sempre nella sua vita. Lei è più diretta. Lo è di carattere ma anche perché, offesa dalla vita, non ha tempo da sprecare in convenevoli. Alla domanda su come stia risponde laconica: «Rovinata». Gli confessa poi «Mi sei sempre piaciuto, bastardo» e alla fine, nel lasciarsi, davanti ai saluti un po’ formali di lui, Arantxa se ne esce con una frase incredibile, tragicamente bella: «Se ti viene un ictus, ci sposiamo». Lo so, non è da una frase (e neppure dalla copertina – che pure, come potete vedere, è molto suggestiva) che si giudica un libro. Ma una frase e una scena come questa fanno molto pensare e sono assai difficili da dimenticare.
P.S. È singolare che i due libri che sto leggendo adesso abbiano quasi lo stesso titolo. Insieme a quello di Aramburu sul mio comodino c’è infatti l’ultima fatica di Enrico Deaglio, Patria 1967-1977, edito da Laterza. Grande libro anche questo.
Lo sto leggendo. Le oltre 600 pagine scorrono velocemente come scorre un torrente in montagna. Condivido la tua riflessione sullo stile di scrittura: mischiare passato e presente per definire la storia. Aramburu li mischia molto bene , non ci si perde quando inizia un capitolo descrivendo sensazioni e o situazioni che lì per lì non sai a chi e a quando si riferiscono, ma dopo poco ecco che capisci subito e aggiungi il tassello. A me aiuta molto la divisione in brevi capitoli. È una storia potente e una testimonianza della sofferenza che si procura quando una vittima viene trasformata in colpevole dal sentire comune di una comunità.
È una storia tremenda…