Il 4 novembre 1943, anniversario della vittoria (un caso?) c’è l’ennesima richiesta di aderire a Salò. Questa volta sono in due a parlare: il colonnello De Micheli, l’ufficiale più alto in grado tra i prigionieri, e il colonnello Carloni, in visita per la propaganda. Papà nei suoi appunti scrive: 4 giovedì. «Parole del col. D.M. Discorso dell’ex col. Carloni. “No”». È pensabile che il loro comandante li abbia esortati a restare fedeli al giuramento al Re? A me sembra molto probabile.
Il giorno dopo, 5 venerdì, «Prima neve e fango». Così, il sabato 6, papà scrive: «Dati guanti al ten. Osnaghi per sig. Col. De Micheli» e, domenica 7, «Parlato col sig. Col. De Micheli. Punizioni e rimproveri solenni». Il colonnello lo rimprovera e lo punisce per avergli dato i suoi guanti? Non sarebbe così incredibile in un mondo ancora un po’ deamicisiano… Intanto il martedì 9 «Partono i volontari. Lo Cascio va a Berlino. Fuoco a una baracca e terzo appello al buio». C’è anche spazio per una buona notizia. «Troviamo un pacchetto di Serraglio». L’11 gennaio c’è la «Rivista del col. De Micheli, giuramento degli ufficiali di prima nomina, con trattenimento serale in baracca».
Al ricordo di questo giuramento papà dedicherà una lettera che inviò negli anni 80 al re Umberto, in esilio a Cascais, ricevendone i ringraziamenti attraverso Falcone Lucifero. Mio padre è stato monarchico tutta la vita, anche dopo che il nostro paese scelse la Repubblica. Credo anche che abbia votato a lungo monarchico, tranne quando nel 1976, davanti all’avanzata del Pci, fece quello che suggeriva Montanelli, si turò il naso e voto Dc. Cosa fece dopo il ’76 non so. Mi sembra facile che, da persona razionale, abbia continuato a turarsi il naso. Ma questa è una mia inferenza: e chi sono io per criticarlo, visto che in quelle elezioni votai – giuro: non so più perché, né riesco a immaginarlo – Democrazia proletaria?.
Torniamo a Przsemysl e ai nostri ufficiali prigionieri. Le notazioni si fanno più rade. Come sempre sono compresenti il “basso” e l’“alto”. Venerdì 19 «Aperta scatola grande sardine. Visitato buco cesso». 26 venerdì «Pioggia neve fango tormenta». 30 giovedì «Visita del colonnello e cambio della guardia». 1° dicembre «Neve». Finisce così il 1943. Secondo la seduta spiritica avrebbe dovuto essere ormai finito tutto: guerra, prigionia, Hitler, Mussolini. E invece continuava tutto. Freddo, neve, gelo, fango. E la routine della prigionia in quell’angolo di mondo così lontano da casa, dalla famiglia, dall’amore.

Mamma “in vedetta”
Fino a qui, noto, non una parola su mamma, con la quale pure si era fidanzato all’inizio dell’anno e della quale portava nel portafoglio numerose foto con dedica scattate in quell’ormai lontano luglio del 1943. Mi sembra strano ma forse non lo è. Il quadernetto verde serviva a lui per ricordare in futuro quello che accadeva in quei giorni. E certo Eugenio non aveva bisogno di scrivere il nome di Lisa per ricordarsi di lei. Né in quei momenti né dopo. Si erano conosciuti otto anni prima in Val Pusteria e con il tempo avevano costruito un legame che solo la morte di mamma, nel gennaio 1972, spezzò. Due mesi e mezzo prima, il 28 ottobre 1971, avevamo celebrato a Bologna le loro nozze d’argento.
Con il gennaio c’è anche l’addio a Przsemysl. Nel novembre del 1943 i Russi avevano ripreso Kiev. Il fronte si sposta, i prigionieri pure. Il primo dell’anno comunque si festeggia con «tagliatelle al tonno» e il 4 arriva un «pacco da casa». Il 7 viene «annunciata la partenza» e papà scrive «Fame». Partono prima gli “optanti”, poi gli “effettivi”. Il 13 giovedì partono tutti. «Di sera si va via. Di notte si supera Cracovia. Freddo. Borchie bianche». Il giorno dopo «Si sta fermi e si mangia a Scavina. Di notte si riparte». Si torna verso la Pomerania. Sabato 15 «Si passa da Neustadt Oberschl. Neisse. Bei paesi senza neve. Königszelt. Manovra e poi salame e pane. Di sera a Glogau. Alcuni sbobba». Domenica 16 l’arrivo a destinazione. «Neustettin, pane e salame. In mattinata a Hammerstein. Cane e frusta. Rivista bagagli. Staffilate. Notte al freddo nella baracca». Il giorno dopo appunti dello stesso tono. «Attesa del bagno. Alle 4 si va. Disinfestazione. Pane dagli americani. Notte in baracca al freddo con Faccini». Il martedì 18 «Si attrezza la baracca. Notte senza paglia». Il giorno dopo «Pagliericcio». Il 2 febbraio «Perquisizione in baracca. Dalle 7,30 alle 14,30 all’acqua e al vento. Continuano le proposte». Il 5 febbraio è sempre stato giorno di duplice festa in casa Galantini. È il compleanno di Enrico, mio nonno, e di Adriano, fratello maggiore di papà. «Auguri babbo! Auguri Adriano!» scrive Eugenio. E i due punti esclamativi ci stanno proprio bene.
P.S. Trovo nella scatola in cui sono conservati il diario, l’agenda e le foto, un ritaglio di giornale (Il Tempo del 24 ottobre 1963) con la rievocazione di quei giorni di prigionia a Przemysl e Hammerstein fatta attraverso i ricordi di un altro internato. Vi si parla del viaggio da P. ad H., un’odissea con il tormento della sete, e dell’arrivo a Hammerstein, «con un immondo sergente della Gestapo, armato di uno scudiscio, che tiene a guinzaglio un enorme cane lupo continuamente aizzato contro chi si attarda». Rileggo gli appunti di papà: il viaggio non sembra un’odissea, certo fa freddo e si mangia poco, ma di sete non si parla. E poi l’arrivo con quelle tre parole «cane e frusta» e poi «staffilate». Papà era parsimonioso di natura, anche di parole, soprattutto sulle sue emozioni.