«Il mare è sempre uno specchio, e quasi troppo placido, dacché non spira vento quasi nulla. Ogni notte è rallegrata dal chiaro lume di luna. Non muovo lo sguardo dalla bella terra d’Italia. Ahi! Patria mia: chi sa se più ti rivedrò. Addio, miei cari, addio, mia terra natia; ecco che sfugge agli affaticati miei sguardi ed altri più non vedo che acqua e cielo».
È il 21 giugno 1849. Luigi Chierici si è imbarcato la mattina all’alba nel porto di Ancona sul brick inglese Frolick. Con lui i compagni dell’ultima avventura anconitana, il preside Mattioli e il colonnello Zambeccari, che con lui formavano una specie di triumvirato che reggeva le sorti del capoluogo marchigiano a nome della Repubblica Romana, quella Repubblica che di lì a due settimane con l’ultimo attacco francese sarà storia. Ancona è caduta sotto il bombardamento degli austriaci e Chierici e i suoi sodali hanno preferito l’esilio a Corfù piuttosto che firmare la resa.
Luigi Chierici ha 26 anni, è medico, è nato a Bologna (suo padre era Vice Rettore dell’Alma Mater Studiorum). Ha partecipato in prima persona alle vicende del ’48 bolognese, battaglia della Montagnola compresa. Membro di spicco del Circolo popolare nonostante la giovane età, Chierici ha creduto davvero nella Repubblica. Mandato a Roma all’inizio del maggio 1849 per far sapere a Mazzini e al Triumvirato quello che stava succedendo sotto le Due Torri, dove i potenti del Circolo nazionale seguivano pedissequamente il dettato del Gattopardo – cambiar tutto perché nulla cambi davvero – viene incaricato dal ministro della Guerra, Giuseppe Avezzana, di tornare «nelle Marche, nelle Romagne e massime a Bologna per provvedere con tutta l’energia ai bisogni di questi luoghi» Avezzana lo nomina perciò «suo Commissario Straordinario, e ciò col consenso del triumvirato». Ma davanti a questa nomina Chierici tituba. Lui la racconta così: «Io allora risposi non potere accettare un tanto incarico, il quale piuttosto era devoluto ad un uomo assennato più di me, ad un uomo di chiaro nome». Ma Avezzana non demorde: «Ve lo comando, riprese il Ministro, io non vado in cerca di celebrità; voglio che voi accettiate, poiché di voi conosco la lealtà e i princìpi, ciò di che ho d’uopo in questa missione». L’insistenza del ministro alla fine è vincente: «Ancora me ne rimaneva perplesso quando egli incalzava col dire, ve lo comando. Mi sottomisi allora, ed accettai una lettera che serviva di fede dell’incarico e guarentigia per ogni riguardo».
Con il nuovo incarico è ora di partire, ormai, dopo due settimane belle e piene d’incontri in una Roma che si gode la vittoria del 30 aprile e aspetta senza illudersi troppo il giorno del giudizio francese. Il giorno del suo arrivo, il 4 maggio, aveva saputo della vittoria «e – annota –me ne gioì l’anima». Passato dal ministero della guerra – avevano una lettera per il Colonnello Pisacane ma vengono ricevuti dallo stesso ministro Avezzana –, vanno poi subito a Monte Cavallo dove ha sede il Triumvirato. In anticamera s’imbattono in altri patrioti, Nicola Fabrizi, Pietro Sterbini, dai quali hanno «ampie prove di cordiale amicizia». Poi incontrano alcuni deputati bolognesi – Savelli, Filopanti, Tornaboni –: anche qui abbracci e baci (anzi, come scrive Chierici «mille baci e mille amplessi»).
Poi tutti insieme vedono prima Armellini e poi Mazzini. Ridiamo la parola a Luigi Chierici. «Finalmente avemmo tutti introduzione alla camera di Mazzini, ove vedevasi un letticiolo poverissimo e mobiglie veramente democratiche. Al mio colloquio con Mazzini erano presenti alcuni dei deputati bolognesi, i quali avevano sciuppati cavalli e carrozze a comperare i voti per arrivare ad essere rappresentanti del popolo» (il riferimento è alle costose campagne elettorali di alcuni per entrare nell’Assemblea Costituente della Repubblica tenutesi a gennaio, non si tratta comunque dei tre deputati citati in precedenza, ndr).
«Io feci palese lo stato vero di Bologna – continua il suo racconto Chierici –, come questa città era tradita dai Comandanti civili e militari e in ispecie dal Preside Oreste Biancoli, e come quella città era indignata col supremo Governo perché l’aveva affatto dimenticata per ogni rapporto». Mazzini si trova in una posizione non facile, tra l’ardore del giovane “capopopolo” e gli eloquenti silenzi dei navigati deputati. «Il Mazzini – è ancora Chierici a parlare – era compreso di tutto quanto io aveva esposto, ma lo raffreddavano con le occhiate quei suddetti deputati per forza, i quali erano troppo attaccati al Preside Biancoli. Io rinvigorii il mio discorso ed invocato un assoluto e pronto provvedimento, mi vestivo di tutto il potere e la fiducia da miei concittadini affidata, chiamando il Triumvirato e i Deputati bolognesi traditori della Patria, se a questi provvedimenti non acconsentivano. Il Deputato Savelli avvalorò le mie parole e mi divisi da Mazzini dopo che mi promise esaudire alle mie richieste».
Una settimana dopo quello con Mazzini, c’è l’incontro con Garibaldi, che Chierici aveva conosciuto a Bologna qualche tempo dopo la battaglia dell’8 agosto. «Nel giorno undici – racconta – andai ad abbracciare i cari amici Garibaldi, Ugo Bassi e Angelo Masina, dai quali tutti fui colmato delle più cordiali espressioni di verace ed affettuosa amicizia. Essi abitavano nell’Albergo rimpetto al palazzo Torlonia (si tratta dell’Albergo d’Inghilterra a via Bocca di Leone, ndr). Stetti con essi molta parte del giorno, parlando degli affari nostri, ed udendo sempre da Garibaldi il suo vivo desiderio di trovare la sua stella polare in Napoli. Ci abbracciammo, ci baciammo e ci dividemmo, e sulle scale dell’Albergo mi imbattei negli amici Bazzani di Sassuolo e Cenni di Bologna. Più tardi, incontrato Ugo Bassi in una bottega di chincaglieria, volle ch’io accettassi, per sua memoria, un elegante scatola per zolfanelli. Poco dopo mi incontrai di nuovo in Angelo Masina, il quale mi lasciò trasparire come egli fosse stanco di vivere, riferendo ciò tutto all’ingratitudine di Bologna verso lui, per la cui patria tanti sacrifici, tanti pericoli aveva sfidati». Sia Masina che Bassi morirono poco dopo: il primo il 3 giugno nell’assalto al Casino dei Quattro Venti; il secondo ad agosto, fucilato a Bologna: era stato catturato qualche giorno prima a Comacchio, mentre cercava di raggiungere Venezia.
Ma torniamo a Chierici e alla sua avventura romana che volge al termine. Il 18 maggio infatti riparte per tornare al Nord. Fa tappa a Recanati, Loreto, Osimo e poi arriva ad Ancona. La mattina dopo prova ad andare verso le Romagne per poi arrivare a Bologna, ma non va oltre Pesaro, visto che gli austriaci ormai sono «quasi alla Cattolica». Torna così ad Ancona dove il suo ruolo di vero e proprio “commissario politico” lo costringe a fare il duro con le persone per imporre l’acquisto dei “boni provinciali”. Soldi veri, insomma, contanti – “numerario” come si dice in quei tempi –, in cambio di pezzi di carta garantiti dalla Repubblica. Facile capire come quell’“entusiasmare il popolo” di cui gli aveva parlato il generale Avezzana si traduca spesso nel suo contrario. Anche perché gli austriaci sono ormai ad Ancona e montano l’assedio, bombardando duramente la città. Dura un mese il lavoro di Chierici e la resistenza di Ancona contro l’esercito austriaco.
Alla metà di giugno il console inglese li esorta a cedere agli «onorevoli patti che propone il generale tedesco». L’attacco, se no, si intensificherà. «Ci assicura che è giunta da Trieste una quantità di proiettili, dietro i quali poi dovremmo cedere». E garantisce che «il Frolick, brick inglese, ci metterà in salvo». Risponde per tutti il preside Mattioli: «Non possiamo cedere né tampoco venire a patti».
Questo avviene il 14 giugno. L’attacco tedesco si fa subito più duro. Scrive Chierici il 17: «Il bombardamento incalza davvero. Né anche nelle grotte sono salvi i cittadini. Bombe di 12 pollici passano perfino laggiù. San Ciriaco ancora comincia a essere molestato. Preso di mira il nostro Palazzo, cadono le bombe sull’ospedale dei feriti a noi attiguo. Talché i malati fuggono dall’ospedale e si ricoverano nel nostro Palazzo. Oh! Scena lugubre, escivano amputati, mutilati, era un orrore». Ormai siamo all’epilogo, la città non gliela fa più. Il triumvirato non vuole cedere ma è pronto a farsi da parte. «Noi rimaniamo forti, pronti a rinunciare a qualunque veste governativa, piuttosto che firmare una capitolazione. Ma come impedirlo al Popolo, al Municipio? Ancona era nel maggiore squallore. Cadaveri da tutte le parti. Case che crollavano ovunque, e pane ed acqua che cominciavano a venir meno».
Il 19 viene trattata “una onorevolissima capitolazione” e il giorno dopo viene firmata la resa. Ancora un giorno per le ultime incombenze, ormai soli: «Ecco qua la grande metamorfosi – annota Chierici –. Il nostro palazzo, prima corteggiato da tanti, oggi è disertato da tutti». Bisogna cambiare gli ultimi soldi: Chierici Mattioli e Zambeccari – tra tutti e tre – non arrivano a mettere insieme 500 scudi. Bisogna salutare gli amici, anche se il morale è sotto i piedi: «Alla sera ci congedammo dalla famiglia Galletti, cui raccomandai la mia famiglia vivamente. Piangevamo tutti, tranne Mattioli, che però non soffriva meno di noi». La mattina del 21 la partenza. Destinazione Corfù.

Luigi Chierici in una foto di fine Ottocento
P.S. Luigi Chierici è stato (quantomeno) il nonno putativo di mio nonno Enrico, che con la famiglia Chierici visse trent’anni in una casa a Via Principe Amedeo 62 a Roma. Il racconto delle sue avventure durante la Repubblica Romana l’ho preso da un suo manoscritto, scritto più tardi ma evidentemente partendo da appunti presi all’epoca, conservato tra le sue carte che mio nonno regalò alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, città natale dello stesso Chierici. Di lui parla il Dizionario bibliografico Treccani con una voce abbastanza esauriente. Peccato che dica che “non si conosce la data della morte”. Già mio zio, e in seguito anch’io, abbiamo provato a informarli – inutilmente – che Luigi Chierici morì il 25 gennaio del 1898 e venne sepolto nella Certosa di Bologna il 3 febbraio dello stesso anno.