Girando sulla rete sono capitato qualche giorno fa su una poesia in romanesco di un’autrice sconosciuta (a me), in cui si fa una lista di parole ormai in disuso, “parole da cerca’ cor moccoletto”. E la lista (in tre endecasillabi e un settenario) è questa:
“gnommero, canoffiena, tatanai,
disdossa, berzitello, farajolo,
sbiossa, caratello,
precojo, spicciatore, miffarolo…”
Termini che equivalgono, in italiano, a
“gomitolo, altalena, confusione,
senza sella, giovanotto, mantello,
scossa, barilotto,
recinto, pettine, bugiardo…”.
Non sto qui a sottolineare la bellezza e l’immediatezza di queste parole (la gaddiana gnommero, la canoffiena, il tatanai, lo spicciatore) alcune delle quali mi giungono decisamente nuove. “Dal vivo” ricordo di aver sentito in casa solo “sbiossa”, probabilmente da mio padre, che era romano da sette generazioni, anche se per lui (come del resto per Trilussa) sbiossa, più che scossa, voleva dire botta, gran botta.
Come ricordo un’altra parola che usava papà, e che non ho ritrovato nella poesia, che era “sminfarolo”, che l’ingegnere usava un po’ in senso spregiativo. Di per sé vuol dire “suonatore”, ma mi ricordo che la tirava fuori ironicamente, quando entrava nella mia stanza, per qualche cantautore che stavo ascoltando e che a me piaceva tanto mentre a lui, evidentemente, no.