Ho finito da un po’ più di una settimana Il sovrano delle ombre, l’ultimo romanzo di Javier Cercas, sempre più uno dei miei scrittori preferiti. Ho preferito aspettare un po’ prima di scriverne qualcosa, per farlo sedimentare dentro, per capire quanto e perché mi è piaciuto (al di là del pregiudizio positivo che mi muove sempre quando leggo qualcosa di Cercas). Ho ruminato in questi giorni, ho riletto l’ultimo spettacolare capitolo, fino a quel bellissimo finale, un finale che riassume e alza a un altro livello tutti i dubbi, le incertezze, le paure che avevano tormentato per anni lo scrittore, trattenendolo dal raccontare questa storia, personale e dolorosa quante altre mai, la storia di suo zio Manuel Mena, giovane falangista morto a diciannove anni nella battaglia dell’Ebro.

Javier Cercas
E già, perché l’autore di Soldati di Salamina, il romanzo che ha aperto (o che comunque ha contribuito in maniera significativa ad aprire) nella letteratura e nella società spagnola il tema della guerra civile, delle vittime, dei perdenti – un tema rimasto quasi bloccato nelle coscienze dopo la morte di Franco e la transizione alla democrazia –, suscitando così una nuova stagione della memoria, l’autore di quella storia, una persona progressista, di sinistra, viene da una famiglia sostanzialmente di destra. «Sentivo che Manuel Mena era la cifra esatta dell’eredità più onerosa della mia famiglia, e che raccontare la sua storia non equivaleva soltanto a farmi carico del suo passato politico, ma anche del passato politico di tutta la mia famiglia, che era il passato che più mi imbarazzava; non me ne volevo far carico, non vedevo alcuna necessità, e tantomeno di spiattellarlo in un libro: mi bastava dover imparare a conviverci», scrive nelle pagine iniziali.
Così tutto il romanzo, o quasi, nei capitoli dispari scritti in prima persona è la storia di uno scrittore che raccoglie materiale per un romanzo che non vuole scrivere; mentre nei capitoli pari, scritti in terza persona, c’è la sistemazione e l’inquadramento storico di quel materiale. Fino al capitolo finale, il quindicesimo, trentasei pagine magistrali (e le ultime più di tutte) in cui Cercas svela, alla fine, perché poi abbia deciso di scriverlo, questo romanzo sulla guerra e contro la guerra. Che forse non è il più bello dello scrittore – la materia era probabilmente troppo dolorosa – ma che vale assolutamente la pena di leggere.
P.S. Già nella prima lettura, e poi anche nella rilettura, l’ultimo capitolo, le pagine finali mi hanno fatto venire in mente il finale pirotecnico di Cent’anni di solitudine. Sono andato a ripescare il romanzo di G.G. Marquez e… insomma, in quelle ultime righe il realismo è davvero magico e la natura fa un triplo salto mortale carpiato con avvitamenti vari; qui invece siamo a un altro livello, la scoperta e il rivolgimento avvengono tutti dentro lo scrittore. Ma quel periodo lungo due pagine con cui si conclude Il sovrano delle ombre è un piccolo-grande miracolo.