Canzoni per una settimana. Parte terza

Eccoci alla terza settimana. Con una puntualità di cui mi credevo incapace non ho sgarrato una sola volta. Ecco dunque altre sette pillole di “vita galantiniana” legata a canzoni. Adesso mi aspetta la quarta ma credo sarà l’ultima, almeno per un po’. La memoria comincia a fallare, e tutto sommato non è che il mio passaggio quaggiù sia stata quest’avventura…

The Best
Cominciamo la settimana alla grande con questa straordinaria canzone di una donna straordinaria. Io sono per natura timido e, pur preferendo i numeri dispari ai pari, penso che tre siano già troppi. Ma l’emozione, la spinta, il “drive” che deve dare cantare davanti a una folla così sterminata credo sia impagabile. Dunque onore a Tina Turner, alla sua voce, alla sua grinta, alle sue famosissime gambe. Onore alla rockstar che ha calcato il palco fino ai settant’anni (questo video è del 2000, quando di anni ne aveva solo 61) e ha scelto di vivere in una piccola cittadina della Svizzera.
In realtà questa canzone l’ho scelta perché da tempo immemorabile il mio amico Gianni, ogni volta che ci vediamo o ci sentiamo al telefono, intona un immancabile “Henry the best” sulle note di questo pezzo trascinante. È il suo modo di dirmi che mi vuole bene, dopo quasi cinquant’anni che siamo amici, anche se non ci vediamo più come quando di anni ne avevamo venti o poco più. E quando lo canta, quasi quasi ci credo a quell’essere The Best…
https://www.youtube.com/watch?v=SvCyFHWBUlc

Suite: Judy Blue eyes
Quell’estate del 1969 a Londra, come ho già detto, fu un disastro dal punto di vista sentimentale. O meglio, del “rimorchio”. In altri termini non battei un chiodo. Fu però un tripudio di novità e di bellezza dal punto di vista musicale. Fu l’estate dei supergruppi e tornai a casa con tre lp spettacolari (secondo me – e conoscendomi – i dischi che comprai furono anche di più, ma di tre ho ancora contezza). Erano tutti opere prime ed erano gli lp dei Blind Faith, degli Humble Pie e, last but not least (anzi!), di Crosby Stills & Nash. Tra Portobello Road e Carnaby Street in quel mese comprai anche qualche camicia a fiori e uno strano ciondolo di ottone con il mio segno, quello del toro, che per qualche tempo portai al collo legato con un laccio di cuoio a mo’ di collare. Poi smisi perché pesava un accidente. (Avevo sedici anni…)
Tornando alla musica, tra i tre dischi il mio preferito fu subito quello di CS&N. Il mito della Westcoast, le belle melodie, gli incredibili impasti vocali. Era un mondo nuovo che si apriva davanti a me, quella musica mi entrava dentro e mi faceva sognare. Sono tutti bei pezzi, ce ne sono alcuni straordinari. Ma la perla assoluta è proprio questa Suite: Judy Blue eyes, lunga, lunghissima, variata, una vera e propria suite, con la maestria di Stills che sul disco suona tutti gli strumenti e canta con la sua voce un po’ affumicata. E con quei due incredibili “controcantisti” di Crosby e Nash che danno il meglio di sé sempre sul filo del rasoio. Come prova questa versione dal vivo di 43 anni dopo. La classe non è acqua.
https://www.youtube.com/watch?v=XWvw_uZPGDA

Honky Tonk Women
Restiamo nel 1969 e restiamo a Londra. Ero partito con mio fratello e con l’amico Eugenio. Mio fratello sull’aereo si mise con una ragazza di Roma e io praticamente per quattro settimane non lo vidi più (tranne quando avevo bisogno di soldi – era lui che aveva la cassa). La swinging London con le sue malie tutta per due sedicenni, insomma. Come premessa mica male…
Su quei giorni ho comunque dei ricordi un po’ confusi con qualche flash molto vivido: dormivamo al Medical College del St Bartholomew Hospital, vicono a St. Paul, ci nutrivamo quasi esclusivamente con panini, spesso all’uovo e pomodoro per evitare sorprese, non sono sicuro se frequentassimo o no qualche scuola d’inglese (ho paura di confondermi con altre vacanze), il nostro sport preferito era lo sputo sulla testa dei piccioni che ti passeggiavano tra le gambe. Ma io ero una pippa pure in quello. 
Ricordo lunghe lunghe nottate a Soho in discoteca (il Kilt e la Poubelle sono i nomi che mi vengono subito in mente), e poi, quando i locali chiudevano verso le quattro di mattina, altre due ore in giro per la città finché arrivava la prima metro per tornare a casa. E in discoteca i primi timidi approcci – Dio quanto non capivo nulla di quello che mi dicevano le ragazze che invitavo a ballare e quante le buche che ho preso, ad Eugenio andò meglio – e l’angoscia dei brani tutti veloci. Mai un lento, nemmeno a pagarlo oro. E l’incubo James Brown: c’era un pezzo – credo fosse Papa’s got a brand new bag – che durava 15 minuti, se per caso iniziavi a ballarlo era un’agonia… 
In tutte le discoteche comunque il pezzo principe, quello che veniva messo più e più volte e che tutti aspettavano per ballarlo in cerchio con le mani alzate a seguire il ritmo della chitarra di Keith Richards era Honky Tonk Women, ovviamente dei Rolling Stones – gran pezzo a dire il vero – che qui potete ascoltare nella versione live del concerto in Hyde Park, quello che seguì di due giorni la morte di Brian Jones, già uscito dal gruppo. Era il 5 luglio, noi non eravamo ancora arrivati.
https://www.youtube.com/watch?v=gqtJELaLG5k

Quando finisce un amore
Nel 1974, quando frequentavo il Folkstudio Giovani la domenica pomeriggio e mi sentivo tanto cantautore, ci fu un concerto al Teatro dei Satiri – si intitolava Racconto (ricostruisco i vuoti di memoria su Google) – in cui Antonello Venditti e Francesco De Gregori si esibirono insieme a Riccardo Cocciante. In quei giorni Antonello – detto ora fa sorridere – entrò in paranoia per un possibile insuccesso e si mise a dare biglietti un po’ a tutti noi (“mi raccomando, ragazzi, spargete la voce”) e fu così che una di quelle sere andai a sentire il concerto assieme a M., della quale ero decisamente (e ahimé infelicemente) innamorato. 
E devo dire che, forse perché Francesco e Antonello li conoscevo un po’ in tutte le salse, quello che mi colpì davvero fu Cocciante. Un po’ per quella voce graffiante, un po’ per due canzoni che eseguì, due pezzi molto simili e decisamente notevoli. Una è la famosa Bella senz’anima, con il suo crescendo fino al celeberrimo “E adesso spogliati” che lasciò tutti a bocca aperta. Ma fu l’altra canzone – dalla struttura analoga – quella che mi colpì di più. Si intitolava Quando finisce un amore ed era decisamente bella e coinvolgente.
Tornando a me e alla mia carriera di cantautore, smisi nella primavera successiva. Un po’ perché alla trentatreesima canzone avevo esaurito le combinazioni di accordi e, a dirla tutta, ero davvero scarso. Un po’ perché una delle ultime volte che salii sul palco sentii due ragazze tra il pubblico che dicevano “Ecco quello che canta come De Gregori…” e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso…
https://www.youtube.com/watch?v=t9IGHhrpFiM

For no one
Quando ero molto giovane e abbastanza irrisolto, tra Beatles e Rolling Stones io ero per i secondi. Non so perché, a dire il vero. Forse perché il mio amico Eugenio era beatlesiano. Forse perché sotto la scorza del tenerone batteva un cuore selvaggio. Forse solo perché ero, come ho già detto, molto giovane. Crescendo sono migliorato, almeno da questo punto di vista. E oggi non ho dubbi: sono beatlesiano al-cento-per-cento, tendenza Macca.
Una delle canzoni che più amo dei Beatles è questa For no one. Uscita sull’album Revolver (siamo nel 1967), con un arrangiamento (per l’epoca) abbastanza inconsueto per un gruppo rock – piano, archi e l’intervento di un magico corno –, è un gioiello assoluto, meno conosciuta e amata di quanto dovrebbe essere. Il remix appena appena uscito di Revolver la rende ancora più luminosa. 
Qui dovete accontentarvi (si fa per dire) di questo video realizzato negli anni 90 quando Paul McCartney reincise il pezzo nell’album (splendido) Give my regards to Broadstreet.
https://www.youtube.com/watch?v=HuphFPEqJqw

Listen to me
Ci sono canzoni che si inabissano per anni e poi all’improvviso riemergono. A volte riportano a galla ricordi belli, a volte ricordi brutti. A volte riemergono e basta. E i ricordi devi andarteli a cercare, mettendo assieme qualche pezzo qua e là. Come questa Listen to me di Steve Forbert, che ho risentito l’altro giorno. Ricordo che mi piaceva molto, che la misi in una compilation, ma non molto altro. 
Sono andato a vedere su Google. La canzone era del 1982, Forbert la mise in un album che non ebbe successo ed essendo il secondo sboom consecutivo finì per un po’ su un binario morto. 
Per quanto riguarda me, nel 1982 lavoravo da due anni a Rassegna, dopo tre anni di precariati vari in Camera del lavoro e in Cgil. Dovevo essere diventato caposervizio della Cultura, ero innamorato e felice, almeno credo, anche se stavo perdendo inesorabilmente la mia battaglia contro la calvizie…
https://www.youtube.com/watch?v=venZIyXVDrI

Questions 67 & 68
Quando sento questa canzone penso sempre a mia madre, morta ormai più di cinquant’anni fa. Mamma era una persona da musica classica (convinse papà a prendere l’abbonamento a Santa Cecilia poco prima di andarsene e quell’abbonamento papà lo divise negli anni a seguire con noi figli, soprattutto con me). Ma le piacevano anche le musiche jazz della sua gioventù o i pezzi da musical. 
Per questo tra tutta la roba che sentivo io, per la quasi totalità giudicata da lei inascoltabile, questo pezzo invece le piaceva. Credo che dipendesse da quell’intermezzo strumentale che c’è prima della ripresa finale, che fa tanto Broadway (o, per restare a casa nostra, Sistina). E così questa canzone del 1969, peraltro stupenda, dei Chicago, per me è la canzone di mamma…
Questo video, registrato proprio nel 1969, dà un’idea di cosa fossero capaci questi sette ragazzi americani dal vivo. Per me il chitarrista Terry Kath era uno dei più grandi…
P.S. Sotto al video c’è questa scritta davvero divertente: This video illustrates the dangers of white people dancing and/or using drugs. This is an educational video. VISIT FRANCE!
https://www.youtube.com/watch?v=NIWoN8kYpbY

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