Onestamente non c’è molto da fare nella stanza di una clinica, se non fare le terapie che ti portano, telefonare a destra e a manca, uozzappare qui e là, leggere dall’iPad o dal Kindle, guardare la televisione (ma questo mi riesce male qui, non so perché).

Via di Villa Massimo, dalla finestra della mia stanza in clinica
Ieri sera ho guardato un po’ di tv e sono rimasto sconvolto dalla visione dell’interno di un reparto di terapia intensiva dalle parti di Bergamo. Che tragedia. Che dolore. Che culo che ho, io, qui in questa clinica di lusso, star male ma essere accudito, con la speranza concreta di sfangarla. Non devo dimenticarlo. Come credo nessuno debba dimenticare questi giorni quando l’incubo sarà finito. Perché ci sono cose importanti che ho imparato (o reimparato) mentre me ne stavo nel letto di terapia intensiva avvolto da cavi e tubicini a guardare il soffitto, attento a non chiudere per gli occhi per evitare che allucinazioni frutto dell’anestesia vi calassero sopra con il peso orrendo del loro fascino.
Ho reimparato quanto è importante il desiderio di un poco d’acqua, di un pezzo di pane, dello sguardo di chi ti vuol bene; quanto conta la musica che ami; la pace che ti dà l’alba sul monte Acuziano quando apri la finestra al mattino. E potrei continuare ma non lo faccio se no mi commuovo.
E chiunque, chiuso in casa, ha la sua lista. Da arricchire o da sfrondare. Da non dimenticare. Perché l’incubo potrebbe tornare. Forse tornerà. Probabilmente. Ma se sai quello che conta; se sai dare valore a quello che hai – magari anche solo dentro, come ricordo – è meno difficile andare avanti.
E per oggi ho pontificato abbastanza. Pace e bene, diceva alla tv quand’ero piccolo Padre Mariano…