Quattordici anni fa, il 21 febbraio, moriva mio padre. Al rientro da una passeggiata, si sedette in cucina, disse qualcosa del tipo “sono stanco” e cadde a terra. Il suo cuore aveva smesso di battere dopo 84 anni di onorato servizio. Io avevo cinquantadue anni e sono diventato grande da quel giorno: non avevo più qualcuno per cui ero figlio e dunque ho smesso di essere il figlio dell’ingegnere, anche se sarò il figlio dell’ingegnere per tutti i giorni (spero non pochi) che mi aspettano al di là di ogni notte.

Papà e mamma in bici a Ravenna, in pineta
Mio padre Eugenio era di poche parole. Io anche di meno, se possibile. E dunque non abbiamo parlato molto, tranne forse il periodo – la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta – in cui abbiamo vissuto insieme, da soli, in casa, dopo che prima mio fratello e poi mia sorella si erano sposati.
Fu un periodo strano. In realtà era lui quello che parlava di più, e io ero quasi in imbarazzo ad ascoltare le sue confidenze, anche se c’era un periodo, quello della guerra e della prigionia, di cui non ha mai detto quasi niente.
Anni fa sono venuto in possesso di un suo diario di prigionia, che definire conciso è un eufemismo, su cui ho scritto comunque qualche post (qui il link per il primo). Scrivere di lui è stato come parlargli, in qualche modo. Anche se è stato un atto fuori tempo massimo, mi ha fatto stare meglio. E non è poco.
Quei post e quel diario li ho poi riassunti in una specie di racconto che pubblico qui sotto. Farlo oggi mi sembra abbia un senso.