Quante persone sono seppellite dentro di noi? A porsi questa domanda è il protagonista de Il colibrì, il bel romanzo di Sandro Veronesi (che ho finito stamattina), nelle ultime pagine del libro e nell’ultimo barlume di coscienza della sua vita.

Il mio “altarino” accanto al letto
Leggendola ho sentito qualcosa risonare in profondità dentro di me. Ho pensato alla mia “religione” del ricordo, all’importanza che hanno per me i miei cari, quelli vivi e quelli che non ci sono più ma che sono ancora vivi dentro di me. “Finché qualcuno si ricorda di te, non muori del tutto” diceva mio zio Adriano citando, immagino consapevolmente, Sant’Agostino. Ma era una risonanza in cui c’era anche una dissonanza, quella provata leggendo la frase di Veronesi, che m’interrogava più di quanto mi rispondesse, che aveva un retrogusto amaro, che non mi metteva a mio agio.
E ascoltandola, questa risonanza dissonante, ho capito dove stava il problema. Nella parola “seppellite”. Che ha una sua logica, soprattutto nel pensiero di qualcuno che sta morendo, ma che è proprio l’esatto contrario della mia esperienza, di quello che, più che credere, sento: il ricordo in me, la presenza – viva – di coloro ai quali ho voluto e voglio bene, magari senza averli conosciuti, come è il caso di mio nonno Lino, della bisnonna Ernesta, di Luigi e Tito Chierici.
Quante persone sono vive dentro di noi? Questa è la vera domanda. Ed è una bella domanda…