Quando stamattina alle 6 e 20 ha suonato la sveglia che mi richiamava ai miei doveri di badante di cana anziana, sono stato estratto da un sogno che definire bello sarebbe un eufemismo. Anche se, nonostante l’argomento non proprio consolatorio, non ero molto angosciato al risveglio. Infastidito, semmai, per non sapere come andava a finire, se mi sarei davvero suicidato o se invece l’apparizione finale avrebbe avuto l’effetto di convincermi a recedere dalla mia decisione.
Stavo infatti passando una lunga fune sul ramo nodoso e forte di un grande albero, testando la resistenza di entrambi, della fune e del ramo. Era un’occupazione che stavo portando avanti con meticolosità – non puoi mica impiccarti a un ramo che poi crolla sotto il tuo peso, no? – quando all’improvviso quattro forme scendevano rapidamente lungo un ramo vicino e poi si fermavano guardandomi, mentre le teste si gonfiavano in un turgore di piume e penne. Erano quattro rapaci notturni, una famiglia: padre, madre, fratello e sorella e mi guardavano. Io guardavo loro incuriosito e un po’ perplesso quando la sveglia ha suonato e la dura realtà di una mattina piovosa, una di quelle mattine che sembra non ci sia mai stato il sole sulla terra, ha fatto irruzione nella mia stanza, stracciando come una ragnatela la materia di cui sono fatti i sogni.
Mentre ripensavo al sogno e a che uccelli potessero mai essere quelli, dapprima ho pensato a degli allocchi, collegando nella mia mente a quel nome le teste bianche che mi guardavano dall’alto. Googlando le parole “rapace+bianco” è venuto fuori che più che allocchi dovevano essere barbagianni. Chissà se erano venuti per godersi lo spettacolo o invece il loro scopo, nella trama fragile del sogno, era quello di farmi cambiare idea. Non lo saprò mai. A meno che stanotte non risogni lo stesso sogno, magari anticipato da un “e nella puntata precedente…”