«Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare quando cade il giorno;
Infuriati, infuriati, contro il morire della luce».
Questi bellissimi versi di Dylan Thomas li declama la voce di Michael Caine in una scena importante di Interstellar, il film di Christopher Nolan che ho visto ieri. Se l’avessi visto in versione originale, i versi sarebbero stati: «Do not go gentle into that good night, / Old age should burn and rave at close of day; / Rage, rage against the dying of the light.» Tutta un’altra musica, si potrebbe giustamente dire… (Chi volesse leggere la versione integrale inglese della poesia potrebbe trovarla qui ; quella italiana, invece, io l’ho trovata qui). Gran bel film, comunque, per nulla noioso nonostante le due ore e mezza di
lunghezza. Un impianto ambizioso: la terra che muore e un manipolo di eroi che tenta la sorte per salvarla (o almeno per salvare la razza umana). Con tanto di wormhole, di buchi neri, di paradossi temporali della relatività generale, da un lato; dall’altro i rapporti tormentati genitore/figlio-a, il dilemma affetti privati/ bene comune. Insomma, grandi temi e una serie di star hollywoodiane (che sono anche ottimi attori) per le parti principali. Gli ingredienti ci sono tutti per fare o un bel film o una solenne boiata. Per me è stato davvero un bel film, che in più ha toccato le corde profonde della mia emotività.
E qui veniamo al titolo di questo post. Ché in più di una scena (complice anche il fatto che, essendo Daniela a Lourdes, sto a casa da solo e da solo guardo i film…) ho sentito i miei occhi inumidirsi e magari anche cedere alle lacrime. Anche se devo dire che piangere per un film non è per me una cosa rara. La prima volta, ricordo, è stata durante la proiezione de I magnifici Sette. Avrò avuto sette-otto anni, ero tutto preso dalla storia ma quando cominciarono a morire gli eroi ci rimasi proprio male, soprattutto quando caddero James Coburn e poi Steve McQueen. Stesso effetto lacrimogeno ebbe il San Francesco di Michael Curtiz, dello stesso anno: lacrimoni e singhiozzi, con il risultato di essere indicato ad esempio dalla madre di un altro bambino che, novello Franti, invece guardava il tutto con ciglio asciutto.
Da allora in poi spesso mi è capitata la palpebra tremante e l’occhio assai liquido. Dopo la morte di mia madre bastava l’accenno ad addii tra genitori e figli per toccare le mie corde profonde (e questo devo dire succede ogni tanto ancora oggi, che di anni ne ho sessantacinque e che mia madre se ne è andata da quarantasette).
L’episodio in questo senso più eclatante, comunque, rimane per me la visione di Voglia di tenerezza, il film di James L. Brooks premio Oscar nel 1984. Lo vidi, mi ricordo, al Metropolitan di Roma. Dopo un primo tempo brillante e spiritoso, nel secondo tempo scoppia la tragedia. La giovane madre Debra Winger si ammala di cancro e muore. Prima di morire decide di salutare i figli. Lì non so come ho fatto a non sciogliermi in lacrime. Tutti – dico tutti – nel cinema singhiozzavano. Io me ne stavo lì, con un groppo alla gola grande così, ma con l’occhio dilatato per non crollare. Quando la ragazza con cui avevo visto il film mi lasciò a Piazza Trilussa (ero da poco andato a vivere da solo alla Trinità dei Pellegrini), la salutai, vidi la sua macchina allontanarsi sul Lungotevere e cominciai a singhiozzare come una vite tagliata. Camminavo su Ponte Sisto e piangevo, incurante degli sguardi dei passanti. Ho pianto fino a casa e anche oltre. Ho pianto credo ancora per molto. Forse, se mi fossi lasciato andare come tutti al cinema, mi sarebbe passata prima. Quella fu una delle notti più bagnate della mia vita