Chissà se coloro che vivevano negli anni in cui secoli dopo si disse che stava iniziando il Medioevo erano consapevoli di vivere tempi così “epocali”. Uno nato, diciamo, nel 410 circa a Roma, dopo il sacco di Alarico, che ne aveva viste di cotte e di crude nell’arco della sua vita e che, 66enne (più o meno mio coetaneo, ma molto più vecchio di me), assisteva alla deposizione dell’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, da parte di Odoacre e alla fine formale dell’Impero romano d’Occidente. Probabilmente era troppo impegnato a sopravvivere al costante peggioramento della situazione, allo sfarsi dell’autorità pubblica, alla fine delle cose in cui credeva per riuscire a porsi domande (e a darsi risposte) così epocali. Del resto erano decenni, se non secoli, che la situazione era in movimento, che la frana si allargava, che l’impero dei suoi padri – e la civiltà ad esso collegata – stava implodendo su se stesso.
A volte mi chiedo se anche noi non siamo troppo impegnati a vivere il disfacimento quotidiano per inquadrare gli avvenimenti in termini più generali. E non mi riferisco certo al risultato delle ultime elezioni – anche se queste hanno un peso non piccolo nella mia depressione di oggi – quanto al progressivo deperire di un’idea di Europa che pure ha rappresentato negli ultimi cinquant’anni il sogno bello di più generazioni; a una crisi economica e sociale che, al di là di cifre sempre opinabili, è ancora forte e rimette in discussione certezze con le quali siamo cresciuti, come ad esempio lo Stato sociale; alla tendenza al particolare che, dal singolo alla comunità, dalla regione alla nazione, premia identità spesso fittizie in nome della paura dell’altro, quell’altro che bussa disperato alle nostre porte e che non sappiamo accogliere se non a malincuore come emergenza. Siamo di fronte, credo, a un vero cambio di paradigma davanti a cui non solo nessuno sembra avere le risposte giuste, ma nessuno sembra neanche porsi le domande necessarie.
Di questi tempi mi torna spesso in mente un libro che ho molto amato e anche letto più di una volta, che si intitola Il sogno di Scipione, di Iain Pears, edito da Longanesi nel 2003. La storia che racconta in realtà sono tre storie intrecciate tra di loro che avvengono in tre momenti diversi della Storia ma negli stessi posti. La location è sempre la Provenza, cioè, ma una vicenda ha luogo nel V secolo, un’altra durante il Papato di Avignone, la terza durante la Seconda Guerra mondiale. Uno dei protagonisti della prima storia, Manlio Ippomane, aristocratico e proprietario terriero, strenuo difensore della civiltà romana, pur essendo pagano fino al midollo decide di aderire al cristianesimo perché intuisce che attraverso la nuova religione la civiltà in cui crede andrà avanti nel tempo e sopravviverà alla barbarie che lo circonda. Dopo la “conversione” viene fatto vescovo e, dopo la morte, diverrà addirittura santo. Prima di morire scriverà un libro, intitolato Il sogno di Scipione, proprio come la celebre opera di Cicerone, la cui lettura influenzerà le vicende degli altri protagonisti nei secoli successivi.
Sempre di questi tempi penso spesso anche alla grandezza smisurata di un personaggio come Benedetto da Norcia, a quel monachesimo attraverso la cui opera nei secoli è sopravvissuta tanta della nostra cultura. Nessuno lo pensava, allora, forse neanche lui ne era pienamente consapevole. E certamente non era il suo primo obiettivo. Ma così è stato.
Il Medioevo come arriva così passa. Peccato non poter vedere il lieto fine…
In effetti si sente nell’aria un acre odore di disfacimento imperiale.