Il mio direttore

L’altra sera, alla fine del concerto dei King’s Singers, ho visto e salutato Adriana, la moglie del mio direttore Renato D’Agostini (dovrei scrivere la vedova, visto che Renato è morto tre anni fa, ma mi è difficile farlo). E da allora, dall’altra sera, mi tornano in mente ricordi di lui, di noi, del nostro lavoro, della nostra vita.

renaatoHo lavorato al suo fianco da quando arrivò a Rassegna nel 1987 fino a quando lasciò la direzione del giornale nel 1998 al sottoscritto per buttarsi nell’avventura di rassegna.it. Ma gli sono rimasto comunque vicino (le nostre stanze erano separate da un muro) fino a quando andò in pensione nel 2008. Gli anni in cui gli ho fatto da braccio destro (lui direttore, io caporedattore e poi vicedirettore) sono stati, dal punto di vista del lavoro, i migliori della mia vita: per come sono fatto io, per come Renato concepiva la direzione. Una volta decisa l’impostazione del numero, lui ti lasciava la massima libertà nella gestione, salvo assumersi la responsabilità di qualsiasi scelta tu gli chiedessi di fare, se il problema richiedeva l’intervento del direttore. Una pacchia, insomma. Il che, legato a un carattere e a un modo di fare tranquillo e rispettoso degli altri, ha fatto sì che fosse semplice lavorare con lui. Renato oltre che un buon direttore era anche una buona penna (basta questo ricordo di Bruno Trentin, cui Renato era molto legato, a dimostrarlo).

Onestamente non ricordo frizioni tra di noi (il che, data la mia memoria, non vorrebbe dire un granché). Oddio, non è facile litigare con me, è vero, ma con Renato era quasi impossibile. La forma nei rapporti umani è sostanza, ma oltre alla forma in Renato di sostanza ce n’era tanta.

La sua formazione scientifica (studiò ingegneria per qualche anno prima di cambiare strada con il ’68)  gli aveva lasciato un grande amore per i numeri. Mi ricordo un anno che aveva elaborato un sistema (quasi) infallibile per vincere al lotto giocando sulle coppie di numeri ritardatari sulla stessa ruota: i grandi ritardatari sono sempre soli; fino a un certo punto possono essere in due a ritardare sulla stessa ruota, ma prima o poi il ritardatario vero resta uno solo. Bisogna solo fissare una soglia alta dopo la quale entrare in gioco, e poi giocarli entrambi sapendo che bisogna poter resistere (aumentando le puntate) per un certo numero di settimane. Il sistema mi piacque, lo adottai, per un po’ vinsi, poi incappai in una coppia che non scoppiava mai e fu la fine del mio amore per il lotto.

In gioventù Renato era stato anche un atleta, nuotatore e pallanuotista. Aveva “rischiato” di andare alle Olimpiadi del ’60, quelle di Roma, per nuotare i 200 rana. Ma aveva perso lo spareggio ed era rimasto fuori. «È stata una delle cose migliori che mi potesse capitare», commentava ricordando l’esclusione dai Giochi.

Dopo la pensione ci siamo persi di vista. Seppi che aveva avuto un tumore ma si era ripreso. Quando la malattia tornò, e ormai Renato era verso la fine dell’ultima vasca della sua vita, andai a trovarlo a casa con Davide. Io sono un cagasotto, davanti alla morte. Non sono andato a Bologna a salutare mio zio poco prima che morisse e ancora mi duole. Ma con Renato non fu difficile. Non stava bene, si vedeva, ma lo spirito era vivace e ci siamo fatti anche delle belle risate. Ci offrì un gelato di S. Crispino, un tè, e  parlammo del passato, ricordando episodi e persone, ma anche del futuro. L’abbraccio con cui ci salutammo – e qui voglio citarlo – me lo sento ancora addosso.

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