Immaginate la faccia di François Arban quando il 14 aprile 1846 scende con la mongolfiera nella piana di Rieti, dopo un volo di oltre un’ora dalla partenza di Villa Borghese a Roma, e uno dei villici festanti che lo circonda gli chiede tre numeri.
Facciamo un passo indietro. Sabato c’è stata la seconda conferenza del programma 2017-2018 degli Amici del museo (di cui mi onoro di far parte) e l’archeologo Giovanni Giacomo Pani ha parlato dell’utilizzo della fotografia aerea nell’archeologia, della sua storia, della sua importanza. E nella sua brillante esposizione ha cominciato proprio dalle mongolfiere, dall’epoca pionieristica del volo insomma, parlando distesamente delle imprese del lionese Francesco Arban, tra cui quella citata prima è forse la più documentata (grazie anche a un libriccino di dieci pagine – oggi lo chiameremmo un instant book – edito per ricordare l’avvenimento). L’opuscolo, che si può scaricare da Google Books racconta distesamente l’avventura del prode Volatore, il suo decollo da Piazza di Siena, il veloce viaggio verso la Sabina, il salire prima a 3.000 metri, poi addirittura a 4.000, tra le nuvole, dove la temperatura scende sotto zero, il Nostro fatica a respirare e si rifocilla con “qualche sorso di vino generoso che seco recava”. Poi vede il lago di Piedilugo (così nel testo) e decide di scendere “aprendo interamente la valvola mediante il tiro dell’apposita funicella”.
Sceso a terra, viene circondato da una trentina di persone che si congratulano con lui, e “contestualmente l’Arban alla presenza di tutti cavò il suo orologio che segnava le ore cinque e mezza precise, ora che combinava perfettamente cogli altri orologgi dei circostanti; e quindi distribuì fra questi quel poco di liquore e cibo, che gli era rimasto dalle sue provisioni, che venne con emulante entusiasmo gustato da tutti gli astanti”.
“E fra questi il più semplice, accostatosi all’Arban, dopo di averlo cordialmente abbracciato e baciato, gli diresse le seguenti parole Mi dai tre numeri? Alle prime l’Arban non intese la forza della dimanda, ma stimolatolo a meglio spiegarsi poté chiaramente intendere che gli chiedeva tre numeri per il Lotto; per cui secondando la sua credulità segnogli col lapis alcuni numeri a capriccio, che furono dal Villico ricevuti come un prezioso tesoro”.
P.S. Chissà se il Villico l’ha azzeccato, quel terno al lotto. Io spero proprio di sì.
P.P.S. E, soprattutto, saperli quei tre numeri, per giocarseli subito…