L’altro giorno sono stato al Gianicolo, per la precisione a Porta San Pancrazio (per maggiore precisione “dentro” la Porta) a vedere il Museo della Repubblica Romana. Ci sono schermi multimediali che ricordano i protagonisti di quell’epopea, un’installazione che ricostruisce il mese finale, da quando i Francesi sbarcarono a Civitavecchia, e manifesti, immagini e quant’altro di quei giorni gloriosi, in cui tanti giovani (ma quant’erano giovani gli eroi di quei giorni, da Goffredo Mameli, a Luciano Manara, da Enrico Dandolo a Filippo Casini, ventenni o poco più…) tanti giovani, dicevo, diedero la vita per un’idea d’Italia che solo dodici anni dopo sarebbe diventata realtà (l’Italia, ovviamente, non quell’idea), ma che allora venne repressa a colpi di cannone.
Uscito di lì ho passeggiato un po’ per le strade dei dintorni, uno dei punti più belli di Roma. Sono sceso per via Angelo Masina (lui, che morì nella battaglia finale dell’inizio di giugno, era un “vecchio”: aveva quasi 35 anni…) dove c’è l’Accademia americana. E nel prato di fronte all’edificio c’è un albero che mi ha affascinato da sempre, da quando ho memoria di quei luoghi, con quel ramo rasoterra che diventa un secondo tronco.
Deve essere un cedro del Libano. Deve essere anche molto vecchio, pure se non credo che abbia visto i giorni della gloria e della sconfitta: dovrebbe avere centosettant’anni… (Qui sotto l’albero da un’altra angolazione).
È difficile immaginare oggi, in quelle poche strade dove la frenesia e il traffico di Roma sembrano una cosa di un altro mondo, che in quei giorni lontani proprio lì si combatteva metro per metro, tra pallottole che fischiavano e attacchi all’arma bianca, con le postazioni che venivano perse, poi riconquistate, poi di nuovo perse. Eppure è successo. E non bisognerebbe aspettare l’ennesimo anniversario per ricordarsene.