Di ritorno dal viaggetto nel Sud della Francia, in macchina con Angelo e Mina abbiamo fatto, per ingannare il tempo, il gioco della “cena migliore”. Io non ho avuto dubbi: pur avendo mangiato in ristoranti davvero buoni, il ricordo per me indimenticabile (ma da subito, nel mentre della cena direi, un ricordo poi rafforzato dalla memoria) è quello della serata a Le Patio di Fontvieille. E dire che ci siamo andati solo perché la Regalido, il resort dove alloggiavamo (munito anch’esso di ottimo ristorante, cucina inventiva e intelligente, ma che non mi è rimasta nel cuore) quella sera era chiuso. Così abbiamo fatto due passi e siamo andati a poche decine di metri a fare questa nuova esperienza.
L’inizio non è stato dei più incoraggianti. Il maitre, un tipo un po’ freddo, ci ha detto subito che il menu a 29 euro (che pure sembrava interessante) non era disponibile. C’erano solo quello a 39 e quello a 47 (tutto basato sull’olio d’oliva: sono vari i “cru” della zona). La cosa ci ha lasciati un po’ perplessi – sapeva un po’ di “sola” –, ma i “titoli” dei piatti erano interessanti e dunque, dopo qualche delucidazione, abbiamo ordinato.
Dopo una “mise en bouche” di cui ricordo solo che era sfiziosa anzichenò, ecco l’entrée, la Declination gourmande autour de la Noix de St Jacques. Titolo suggestivo per un antipasto eccezionale. Un piatto di quelli a quattro scomparti, con tre variazioni sul tema Capasanta, e poi una remoulade di finocchio per ripulire/riequilibrare la bocca. La prima variazione era una tartare di capasanta e tonno: decisamente buona. La seconda era una “noce” di capasanta affettata sottile su un letto di qualcosa che potevano essere grissini tritati finemente con pomodori e odori freschi: assolutamente deliziosa ed evocativa. La terza era una noce lessata, servita in un bicchierino dentro un sugo d’astice, con un bastoncino di parmigiano al nero di seppia a mo’ di cucchiaino: più che sorprendente. Alla fine il finocchio tagliato a julienne con la salsetta bianca era la ciliegina sulla torta. E preparava al piatto che sarebbe venuto.
Un piatto davvero indimenticabile, anche se non ho capito esattamente tutto ciò che c’era. Allora, cerco di fare il punto. Il Filet de Mulet de Mediterranée a l’huile de Cédrat du Moulin de Castelas & perles de blé aux agrumes, questo il titolo, era un’autentica poesia. Una di quelle esperienze che si provano poche volte a tavola, uno di quei sapori che ti entrano dentro e lì restano, anche se poi con il tempo quello che rimane davvero è la sensazione della perfezione e della sorpresa. Dunque, il filetto di cefalo, cotto fino a rendere croccante la pelle in quest’olio di Cedro (un olio in cui l’agrume viene molito assieme alle olive e che ha dunque un sapore assai particolare) era adagiato su una specie di cous cous di grano perlato, anch’esso insaporito da agrumi vari. Il connubio/contrasto tra il pesce e gli agrumi era rafforzato da una salsa che non so descrivere se non con il fatto che anch’essa era tendente al dolce. Rendeva il tutto vieppiù interessante il carciofo che accompagnava il piatto, cotto alla provenzale, e cioè lessato un po’ duretto, con una salsina di pomodori e odori.
Resterebbe da descrivere il dolce – il Fondant au citron et praliné, aux éclats de crumble de cacao, assai azzeccato – e il vino – un bel Traminer, molto alsaziano nel gusto e meno (per fortuna) nel prezzo. Ma il ricordo delle capesante e del Mulet, e il tentativo di raccontarli, mi ha esaurito. Alla prossima…