Ieri, a commento di un post, di cui come sempre metto l’avviso su Facebook, il mio amico Paolo Andruccioli, sempre su FB, diceva che ero pronto per la pittura. Lui non lo sa, ma ha detto una grande verità e insieme una cosa inesatta. Io ero pronto tanto tempo fa e, per tanto tempo, ho custodito nel mio studio questo (non so come chiamarlo se non) quadro al quale ho lavorato per molti e molti anni e che ho intitolato: Nel prato batte un cuore.
Tutto nasce dall’impressione immensa che fece su di me un’opera di Jackson Pollock al Centre Pompidou di Parigi, trenta e passa anni fa. Il quadro s’intitola The deep ed è davvero emozionante. Non avevo mai amato Pollock sui libri o leggendone. Non è pittore da riproduzioni fotografiche. Va visto e sentito sul posto. Bisogna essere lì e sentire i propri occhi affondare nella ferita di nero che si apre tra i filamenti bianchi della superficie per apprezzarlo veramente. Bisogna vivere la sua materialità per sentirlo. Per questo ero incerto se postare questa immagine presa da Google, proprio perché non rende. Ma tant’è. Chi vuole provare l’esperienza, basta che vada a Parigi e ne varrà la pena…
Tornando al mio quadro, è il primo e l’ultimo che dipingo (in questo senso Paolo sbaglia: ero pronto, non lo sono più…). L’idea che ho inseguito per anni era quella di rappresentare l’idea di un prato accarezzato dal vento, con un che di futuristico nel cercare di rendere il congelamento del moto. Ci ho lavorato di nascosto mese dopo mese, non sempre ma tornandoci ogni tanto, come il vento che torna sempre a muovere i fili d’erba. Pennellata dopo pennellata, i colori a olio hanno costruito negli anni sulla tela un prato quasi vero.
Ma la vera scoperta è stata l’uso della biacca per segnare di bianco le tracce congelate del movimento. Una volta realizzato questo – ci sono arrivato due o tre anni fa, studiando un pittore fiammingo della metà del ‘600, Van der Houten, e il saggio illuminante su di lui di Gigliola Mazzei, che ringrazio anche per le delucidazioni tecniche che ha voluto darmi quando l’ho contattata: mi hanno aiutato molto – il più era fatto. Si trattava solo di andare avanti fino a quando il quadro fosse pronto. Fino a quando io fossi pronto a smettere. E la settimana scorsa ho deciso che era il momento: di smettere non solo di dipingere questo quadro, ma di smettere del tutto di dipingere.
P.S. Chiedo scusa a chi ha letto fin qui, ma mi sono fatto prendere la mano. Quella strana foto verde è uscita non so come dall’iPhone – credo mentre passeggiando sul prato mettevo il telefono in tasca – ma fin da subito non mi è dispiaciuta. Di sicuro non saprei mai rifarla, come non saprei dipingere una tela, né a olio né con qualsiasi altra tecnica. Se qualcuno volesse ispirarsi, gli regalo l’idea e il titolo.
Non sapendo come sia uscita fuori, non sapendo mai come rifarla, la considererei come un capolavoro dell’ “attimo” , del “presente”.
A mia insaputa
Fantastico racconto!
A volte riescono
L’ha ribloggato su enricogalantinie ha commentato:
Avrei sempre voluto saper dipingere (come avrei voluto saper fare altre cose, tipo suonare il piano. E se è solo per questo, avrei sempre voluto avere i capelli lunghi e biondi, o magari solo avere i capelli…). Deve essere per questa antica passione che un giorno mi è venuta in mente questa storia, alla quale, se non ricordo male, qualcuno ha creduto, nonostante l’avvertenza posta in fondo nel post scriptum. È proprio vero: le parole ingannano. Ed è anche vero che nessuno legge un post fino in fondo. Come diceva quel personaggio de Il grande freddo, un articolo non deve essere più lungo di una cagata media. E dal 1985 a oggi la lunghezza media delle cagate si deve essere assai accorciata…