A new kid in town

Qualche anno fa (più precisamente cinquantanove), di questi giorni (più precisamente questo giorno), più o meno a quest’ora (più precisamente alle dieci circa di sera) alle pendici del colle di S. Michele in Bosco a Bologna, in una clinica chiamata Villa Rosa (dove tornai circa diciott’anni dopo a farmi togliere due viti dall’anca), vidi per la prima volta la luce (anche se artificiale) del mondo. Dicono che cacciai uno strillo. Secondo me esagerano: più che altro mi schiarii la gola, tanto per far capire che ero arrivato e che, tutto sommato, stavo bene ed ero contento di esserci. Probabilmente volevo fare anche notare di essere stato puntuale, visto che mi aspettavano proprio per quel giorno: un’abitudine, la puntualità, che non ho ancora perso.

Mia madre, se ricordo bene quanto mi ha raccontato la zia Marcella, presente all’evento, mi definì “al mi v’ciaz” o qualcosa del genere (se qualche parente bolognese legge questo post e mi corregge la grafia lo ringrazio in anticipo: il senso comunque dell’espressione è “il mio vecchietto”, o forse “vecchiaccio” per via del fatto che ero tutto rosso e rugoso) e chiese subito una sigaretta (avrebbe rinunciato al “vizio” del fumo dopo un po’, probabilmente all’arrivo di mia sorella due anni e mezzo più tardi). Mio fratello in un empito di affetto disse che ero bello e proprio come si aspettava che io fossi. Non so se gioisse per la mia bruttezza, che mi squalificava come possibile rivale nell’amore materno, o se manifestasse già un po’ di quella miopia che più tardi l’avrebbe obbligato a rendere ancora più fascinoso lo sguardo attraverso le lenti graduate. Scherzi a parte: Angelo, ho sempre apprezzato quella tua frase anche se, anzi proprio perché, capisco quanto ti sia costato soprassedere alla tua naturale propensione a dire sempre la verità…

Questa è la mia prima foto nell’album di papà, già non ero rugoso…

Avevo deciso di scrivere questo post non tanto per parlare di me, quanto di mia madre, la vera protagonista di quel 5 maggio di tanti anni fa, ma evidentemente, nonostante siano passati più di quarant’anni da quando non c’è più, non mi è facile farlo, visto che sto cazzeggiando su di me e su mio fratello. Comunque, provo a riprendere il filo del discorso e lo faccio con una foto. A volte le immagini dicono più delle parole.

Mamma e io, sempre a Cervia nell’estate del ’53

Mia madre si chiamava Lisa. Tutti la chiamavano Lisetta, la Lisetta come si dice al Nord. Era di Ravenna dov’era nata nel 1923, il 23 luglio: dunque in questa foto ha trent’anni. Aveva conosciuto papà in montagna, in Val Pusteria, nel 1935 credo. Da allora si incontrarono tutte le estati in vacanza a Monguelfo. Mamma venne anche un anno a studiare a Roma, al Cabrini, che stava dove adesso c’è l’Hotel Aldrovandi, per stare vicino a papà. Si fidanzarono comunque nel 1942, poi papà partì per la guerra e l’anno dopo lo mandarono, proprio alla vigilia dell’8 settembre, in Germania, dove venne fatto prigioniero dai tedeschi. Dopo circa un anno venne “liberato” dai russi, che comunque  tennero lui e i suoi compagno di sventura similprigionieri per molti mesi ancora. Tornò a casa assai smagrito verso la fine del ’45. Quando lei seppe che lui era tornato, venne a Roma attraversando l’Italia su una di quelle camionette che sostituivano i trasporti regolari ancora inesistenti e l’anno dopo si sposarono. Nel 1948 nacque mio fratello Angelo, mentre papà finiva di studiare ingegneria e loro tre vivevano in casa dei miei nonni paterni a Via Dandolo. Non devono essere stati anni facili, quelli con nonna Maria.

Comunque poi papà si laureò, trovò lavoro e la mia nascita fu la spinta ad andarsene di casa. Nonna del resto era stata categorica: un altro figlio in casa con loro, no, non lo voleva, e non aveva neanche tutti i torti… Così mamma andò a Bologna da sua madre ed è per questo che io nacqui lì.  Avrei potuto essere romano da otto generazioni, anche se dentro di me sento di esserlo lo stesso…

Accennavo prima a mio fratello e mia madre. La foto qui sotto spiega perché, circa trent’anni dopo che venne scattata, iniziai un’analisi che è durata fino a quando la mia analista, esausta, mi ha cacciato via, dodici anni dopo.

Quello sguardo alle mie spalle, quella complicità che mi escludeva me li sono portati addosso per anni. Anche qui, sto scherzando per non diventare patetico. Il fatto è che quarant’anni sono tanti. Per tanto tempo ho contato gli anni che passavano in questo modo: 18 con mamma, uno senza; 18 con mamma, due senza. E così via. Quando i “senza” sono diventati più dei “con”, i ricordi hanno cominciato ad affievolirsi. Adesso che i “senza” sono più del doppio dei “con” mi capita di pensarci più spesso.

Per molto tempo i ricordi più forti sono stati quelli delle ultime settimane a Bologna, a cavallo del Natale 1971. I primi giorni dopo l’operazione per l’occlusione intestinale, mamma sembrò rifiorire. Ma poi, quando il 24 dicembre tolsero le flebo e iniziarono l’alimentazione normale, l’intestino distrutto dalla celiachia (di cui all’epoca si sapeva poco o nulla) collassò e non ci fu più nulla da fare. Con il tempo, dicevo, quei ricordi si sono affievoliti e altri più belli sono tornati. Ho avuto un’infanzia tutto sommato felice e una madre straordinaria. Peccato che sia durato poco…

Mi fermo qui perché sono esausto. Forse oggi ho mangiato e bevuto troppo. Chiudo con un altra foto. Quest’immagine venne scattata in Val Casies, splendida convalle della Pusteria. Da sinistra si vedono: papà, mamma, la nonna Maria e, davanti a lei, la zia Marcella, la nonna Angela, nonno Enrico e zio Adriano. Sull’anno non sono sicuro: mio padre propendeva per il 1938, ma a me lui e la mamma sembrano un po’ più piccoli dei sedici e quindici anni che rispettivamente dovrebbero avere se la foto fosse stata scattata davvero quell’anno. Mamma morì poco dopo aver celebrato le nozze d’argento con papà. Ma la loro storia era iniziata molto prima.

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