Questa è una storia vera. Anche per questa le “pezze d’appoggio” le ho trovate nella scatola di cui al post precedente.
Tanti anni fa, a naso direi intorno alla fine degli anni 70, inizio degli anni 80 (se ricordo bene vivevo ancora con mio padre, quindi il termine ante quem è il 17 marzo del 1984), venni borseggiato in un negozio del Corso. Fiducioso nel prossimo, giravo con la mia tolfa sempre più o meno aperta (comunque slacciata) e dunque c’era probabilmente da aspettarselo. Dopo che successe capii che c’era da aspettarselo; prima che succedesse – beata ingenuità – non ci pensavo proprio.
La mattina dopo, abbastanza sul presto, chiamano al telefono.
– Il signor Enrico Galantini Novi Lena?
– Sono io –, rispondo ancora assonnato.
– Oddio – penso poi –, e mo’ chi usa tutti e tre i cognomi?
– Qui è il commissariato di Santa Marta. Abbiamo il suo portafogli, le dispiacerebbe passare qui da noi?
– Ma no, si figuri, non ci speravo proprio. Vengo in mattinata?
– Appena può, grazie. Chieda del dottor xy
Mi lavo, mi vesto e vado in centro. Arrivo a piazza del Collegio Romano, entro nel commissariato, chiedo del dottor xy e mi fanno entrare in una stanza dove c’erano un paio di poliziotti, forse tre, che mi pregano di accomodarmi. Mi raccontano che le due zingarelle che mi hanno borseggiato nel negozio erano seguite da un agente della anti-borseggio, che però ha dovuto aspettare che le ragazzine arrivassero in un vicolo e aprissero il portafoglio per arrestarle. Mi fanno vedere il portafogli. Lo riconosco, penso sia finita lì, faccio per alzarmi e ringraziare ma mi pregano di restare.
Resto, un po’ perplesso. Perplessità che aumenta quando mi chiedono che cosa faccia nella vita. – Studio lettere e collaboro con l’Avanti! e con un periodico della Cgil di Roma, gli avrò risposto se l’episodio risale a prima del 1980. Oppure, se è posteriore, gli avrò detto che lavoravo per il settimanale della Cgil. Insistono con domande di cui non capisco la ragione: non ricordo esattamente che cosa mi chiedono, ma vanno avanti con l’interrogatorio per almeno una decina di minuti. Poi evidentemente si convincono, immagino dall’ingenuità e dalla tranquillità delle risposte (o forse bastò la mia faccia da bravo ragazzo: quello che pochi anni prima le amiche di mia sorella presentavano alle madri perché le lasciassero uscire), si convincono insomma della mia buona fede e si presentano.
– Sa, siamo della Digos ed eravamo restati incuriositi da queste… E mi fanno vedere le fototessera che conservavo nel portafoglio,
un mio vezzo che però in tempi di terrorismo non era una gran pensata, specie se il tuo portafoglio finiva in mano alla Digos. Risolto il problema, ricordo ancora il poliziotto che, con forte accento siciliano, mi mostra come si portava la borsa: chiusa e con il lato della chiusura verso l’interno. (Non ho mai seguito il suo consiglio, finché ho portato la tolfa).
Qualche mese dopo venni chiamato a testimoniare in tribunale. Feci la solita figura del coglione. Lei è stato borseggiato il giorno tale? Sì, ma non me sono accorto. Riconosce le due ragazze qui presenti? Assolutamente no, c’era un sacco di gente e, ripeto, non mi sono accorto del borseggio. E via dicendo.
Il pm era un compagno di scuola di mio fratello. Vincenzo, un giovane magistrato progressista già abbastanza disilluso, mi spiegò che le due zingarelle, visto che al momento del processo erano entrambe in stato interessante, sarebbero state condannate a qualche mese ma rilasciate praticamente subito.
Una cosa da allora l’ho imparata. Le foto tessera è meglio conservarle a casa. Magari perderle e farne di nuove alla bisogna, ma non portarsele mai nel portafogli.
Effettivamente, non si può dare completamente torto alla Digos…
effettivamente no, anche loro avevano le loro ragioni. Chissà se ci sono rimasti male a vedere che ero solo un coglioncello qualsiasi e non un pericoloso terrorista…
eh si….tra la prima e l’ultima si può rintracciare una certa “sequenza logica digossiana” di quegli anni….l’ultima soprattutto sembra molto quella del teorico
giusto teorico, pensa tu se mai mi mettevo a fare altro che rimirarmi l’ombelico…