Mi sento un po’ ridicolo, a quasi sessant’anni, a muovere ritmicamente la testa, quasi fossi un uccello becchettatore, mentre ascolto Stone in love dei Journey. E penso a come mi sembrava buffo mio padre quando lo vedevo seguire con lo schiocco delle dita lo swing di un pezzo di Artie Shaw o di Tommy Dorsey. Il fatto è che quella musica era per lui, come quella di quest’album dei Journey è per me, la musica, se non della giovinezza, di un periodo ancora non troppo lontano della giovinezza, quando mi avviavo verso i trent’anni, avevo cominciato a lavorare da poco e pensavo di avere tutto il mondo davanti a me.
Ciò detto, resta il fatto che Escape dei Journey è un disco monumentale. Al di là della “boraggine” dei cinque ragazzi di San Francisco (ma non è che siano molti i “brummel” nel mondo del rock) l’energia che fuoriesce da quei solchi è spaventosa. Già l’attacco con Don’t stop believing è mozzafiato, con la chitarra di Neal Schon che arriva da lontano in un crescendo da brivido sulle note del piano di Cain e la voce di Steve Perry. Ma poi c’è l’energia pura di Stone in love appunto, dov’è ancora la chitarra dell’ex Santana (esordì a 17 anni!) Schon a menare la danza con un riff (raddoppiato sull’altro canale dello stereo) che ti prende subito lì, in basso, dalle parti dell’ombelico e non ti molla.
Due pezzi di seguito con questa intensità non li sentivo in un album dai tempi di The captain and me dei Doobie Brothers (quando nel gruppo si scontravano le personalità di Tom Johnston e di Patrick Simmons, più rock il primo e più folk-country il secondo). Lì l’uno-due era rappresentato da Long Train Running e da China Groove ed era un uno-due sensazionale, “breath-taking”, come dicono negli States.
Ma tornando a Escape, l’uno-due dei Journey non era da meno. Anche perché c’erano il tre (la ballata ritmata: Who’s crying now), il quattro (il rock sincopato ma senza freni: Keep on runnin’), il cinque (la ballata romantica: Still they ride). Tutta la prima facciata era un gioiello: 21 minuti di energia pura. Tanto da farti desiderare di indugiare un attimo prima di ributtarti nella mischia (e da rivalutare quella noia che consisteva nel dover rigirare il vinile…). Non starò qui a fare la cronaca minuto per minuto della seconda facciata, che anche qui comunque sparava quasi venti minuti di adrenalina pura, senza cadute di stile, prima di finire con una bella ballata FM come Open arms, che portò i Journey assai vicini al numero uno delle Charts.
A sentirlo oggi, Escape sente un po’ il peso degli anni, ma in fondo neanche tanto. Di sicuro lo sento più io.