Il terzo capitolo di questa saga è fatto in realtà di due dischi. Anzi, visto che il secondo è doppio – uno dei primi della storia del rock, se non il primo, a essere doppio – di tre. Il primo dei tre è stato anche il primo album che io abbia avuto. Mi venne regalato per il Natale del 196 (o forse per il mio compleanno l’anno dopo) , non ricordo da chi, non so se su mia richiesta o meno. Ma tant’è.
Il disco che avrebbe poi segnato la mia storia di rockfan si chiamava Highway 61 revisited ed era ovviamente di Bob Dylan (allora 24enne). Si apriva con Like a rolling stone (ah, l’organo di Al Kooper, che non aveva praticamente mai suonato quello strumento prima di quella session; ah, la chitarra di Mike Bloomfield…) e conteneva altre gemme assolute come la spettrale e millenaristica Ballad of a thin man (ricordate? Something is happening here and you don’t know what it is, do you, Mr. Jones), la solare Queen Jane approximately, le ballad It takes a lot to laugh, it takes a train to cry e Just like Tom Thumb’s blues (quest’ultima assolutamente fantastica, tra le mie preferite, con il suo andamento vagamente mex, il piano in primo piano sul canale di sinistra dello stereo, e l’altro piano – elettrico? – in secondo piano, sul canale destro, a dialogare con la chitarra) e soprattutto l’interminabile Desolation Row, una voce, un’armonica e due chitarre (fantastica quella di Charlie Mc Coy con i suoi arabeschi su e giù per la melodia) per 11 minuti e 23 secondi. Che ho adorato subito senza capire una parola (o forse solo qualcuna di quando in quando). Ma io sono un Dylaniano sui generis: quello che amo di più sono le sue musiche e il suo modo incredibile e inimitabile di cantare. Le parole le ho lette poi. E certo ci sono squarci potenti e indimenticabili. Aggiungono valore e per cose come Blowin in the wind e altre sono assolutamente indispensabili. Ma se no, almeno per me, già le musiche bastavano (bastano) e avanzavano (avanzano).
L’altro disco, per me legato indissolubilmente a questo, è quello che Dylan fece un anno dopo, il doppio Blonde on Blonde. Anche qui, che dire davanti al capolavoro? Forse sarebbe meglio tacere. E tra un attimo lo farò. prima voglio solo ricordare tre quattro canzoni (ma non ce n’è una tra le 14 pubblicate che sia banale). Just like a woman e I want you le conoscono tutti e sono anche nel mio cuore. Io però ho amato sommamente One of us must know (sooner or later), con l’organo-cattedrale di Al Kooper (sempre lui…) che inizia in sordina e piano piano prende possesso del pezzo. E poi la stratosferica Sad eyed lady of the lowlands, con il suo andamento da french waltz e i suoi oltre 12 minuti, nella versione originale, che riempivano un’intera facciata e che nella mia cameretta risuonarono per notti e notti attraverso il meccanismo del repeat (quante volte mi sono addormentato e poi risvegliato al mattino sentendo questa canzone…).
Dopo Blonde on blonde Dylan ebbe un incidente motociclistico che lo tenne due anni lontano dalle scene. Io ho sempre pensato che le rockstar dovrebbero morire giovani. Così diventano eterni. Se Dylan fosse morto dopo questo disco, sarebbe diventato più che una leggenda, sarebbe diventato un mito. E ci avrebbe risparmiato tanta roba che aggiunge poco alla sua storia.
L’ha ribloggato su enricogalantinie ha commentato:
Sul Dylan dal 1970 in poi non parlo: non lo conosco e in fondo non m’interessa (io il Nobel) l’avrei dato a Leonard Cohen. Ma Blonde on blonde e Highway 61 revisited sono capolavori assoluti. Ieri ho risentito Blonde on bionde e mi sono commosso tutte le volte che entrava l’Hammond di Al Kooper. E quando ho sentito Sad eyed lady of the lowlands ho dovuto prendere il fazzoletto
Enrico, ma se fosse morto nel 1970 come avrebbe potuto scrivere nel 1976 quella meraviglia incredibile di album che si chiama blood on the tracks?
Non lo so, ovviamente. Ma non avrebbe scritto quella cagata di Self portrait… E comunque, non avendolo scritto -Blood on the Tracks – non ci sarebbe mancato