
Seconda settimana di pillole autobiografiche in musica e quindi secondo resumé. Questa mia iniziativa su FB sta avendo il successo che mi aspettavo (cioè pressoché zero) ma sono contento. Perché i like, per quanto pochi, vengono da persone cui voglio bene. E in fondo è questo che conta…
Back to the earth.
Dicevo qualche giorno fa dei giovani (trenta-quarantenni) che fanno bella musica, parlando di Sara Bareilles. Ecco oggi un altro dei miei preferiti (che tra l’altro è stato uno dei protagonisti di Waitress, un musical proprio della Bareilles) e cioè Jason Mraz.
Chiari origini cecoslovacche, nessuna parentela con il famoso bassista jazz, J.M., chitarrista impeccabile e ottimo cantante, ha pubblicato dei begli album e soprattutto (ma perché soprattutto?) si trovano delle sue splendide esibizioni live su You Tube.
Tipo quelle con Daryl Hall e la sua band casalinga (imperdibili) e soprattutto (ancora soprattutto?) il concerto all’Mranch con le Raining Jane. Il pezzo di oggi viene da quell’esibizione che esalta l’alchimia tra J.M. e le quattro musiciste californiane. Mi saprete dire…
Jason Mraz è un ottimo antidoto contro la tristezza. Ogni volta che lo ascolto l’umore volge al bello.
https://www.youtube.com/watch?v=I8xW2nkGMMw
If you saw thro’ my eyes.
Era il 1971 e quel disco mi colpì nel profondo. Iain Matthews, che all’epoca si faceva ancora chiamare (all’inglese) Ian, era alla sua prima prova da solo. Aveva già avuto grande successo nei Matthews Southern Comfort e prima ancora nei Fairport Convention.
A venticinque il grande salto nella carriera solista con un album praticamente perfetto. Dodici canzoni, dodici gemme. Alcune anche sue (non è mai stato un autore molto prolifico). Questa, che potere ascoltare qui in una versione di quasi quarant’anni dopo, è la canzone (sua) che chiude il disco (e gli dà il titolo). Da brividi la versione originale, con Sandy Denny al piano e controcanto e la chitarra di Tim Renwick.
Matthews è stato sempre un mito per me. Per la sua voce, il suo essere appartato, per quelle dodici perle di cinquantun anno fa. Tanto che qualche tempo fa, quando ho trovato il cd di questo album in un’edizione limitata con l’autografo dell’artista, l’ho preso di corsa. Il secondo autografo della mia vita, dopo quello di Graziella Sciutti scritto lì per lì sul programma di un concerto a Bologna (ma questa è un’altra musica e un’altra storia…).
https://www.youtube.com/watch?v=ElrDxuev0rM
Cloudbusting.
Gli anni Ottanta sono stati, è vero, anni di plastica, di glamour, per la musica anni di gruppi che curavano più l’apparenza che la sostanza. Anni da bere, a garganella, senza sorseggiare.
Da noi, in Italia, sono stati gli anni in cui Berlusconi ha cominciato a cambiare (in peggio) questo nostro paese.
Ma gli anni Ottanta sono stati anche gli anni in cui tanti musicisti hanno prodotto in tutto il mondo album e canzoni splendide.
Sono gli anni in cui Kate Bush (artista da me molto amata) dà vita a gemme assolute, tra cui l’album Hounds of love da cui ricava molti singoli e molti video.
Tra i quali io personalmente amo molto questo, con Donald Sutherland nella parte dell’acchiappa-nuvole (il filosofo Wilhelm Reich con il suo Orgonon) e la stessa Kate nella parte del figlio (Peter Reich). Dietro l’idea del video, in realtà un vero e proprio piccolo film, c’è la stessa Kate – artista a 360 gradi – e Peter Gillam. E scusate se è poco.
P.S. Se il cloudbuster, la macchina che viene spinta su per la china, vi ricorda qualcosa, ebbene sì, a realizzarla hanno pensato quelli del team che ha creato il mostro di Alien…
https://www.youtube.com/watch?v=pllRW9wETzw.
A whiter shade of pale.
I ragazzi stavano da una parte e parlottavano tra loro, le ragazze dall’altra e anche loro sembravano disinteressate al ballo. Ma poi qualcuno metteva sul piatto questa canzone e con i Procol Harum la festa prendeva quota.
Io cercavo Giulia, che con i suoi capelli biondi lisci e il fare un po’ scontroso (forse era solo timidezza) mi aveva catturato, ma non ero il solo. E così magari invitavo Claudia, con i suoi riccioli neri, gli occhi di un blu profondo, e il sorriso aperto di chi sembra sapere qual è il suo posto nella vita.
Avevo quattordici anni (e non permetterò a nessuno di dire ecc. ecc.) e con le ragazze ero di un imbranato totale. Ma quell’organo magico ti prendeva per mano e magari provavi anche a stringerla un po’. E se lei non si tirava indietro ma anzi appoggiava la testa sulla tua spalla, beh, che cosa potevi chiedere di più alla vita?
Peccato che quattro minuti passino davvero in fretta.
I miracoli, si sa, non durano.
https://www.youtube.com/watch?v=CJxpKlTID2Q
I’ll see you in my dreams
Ho amato molto George Harrison. Come musicista, dentro e fuori i Beatles. Come uomo, per la misura che lo ha sempre contraddistinto e il suo sense of humour, tipicamente british.
Quando è morto così giovane mi è molto dispiaciuto, anche se ho pensato che uno come lui, così attento alle cose dell’anima, aveva avuto sicuramente il tempo di prepararsi al passaggio e chissà, magari s’era reincarnato in un bell’uccello canterino.
Il concerto che la moglie e il figlio (uguale al padre in maniera impressionante – tanto che Paul a un certo punto commenta: a guardarci, siamo tutti invecchiati tranne George, e indica il figlio di questi, Dhani) hanno organizzato alla Royal Albert Hall per commemorarlo è stato memorabile, come indimenticabile è quest’ultimo pezzo che Joe Brown dedica all’amico suonando l’amato (anche da George) ukulele. I’ll see you in my dreams, ti rivedrò nei miei sogni, canta il vecchio rocker, e dal cielo casca una pioggia di petali.
https://www.youtube.com/watch?v=CTWI28r5-ag
Firth of Fifth.
Alla seconda protesi (alla stessa gamba) avevo deciso di fare una bella fisioterapia per riprendermi il prima (e il meglio) possibile. Così quando Franco (il mio ortopedico) mi ha suggerito di passare tre-quattro settimane in una clinica specializzata convenzionata con il SSN ho detto subito di sì. E ho fatto bene, la ripresa è stata abbastanza rapida, certo più che se fossi tornato a casa (io non ho la costanza superumana di Daniela che dopo la protesi al ginocchio lavorava sette ore al giorno a casa…).
Solo che sono state quattro settimane di rottura di palle sesquipedale (che non so bene cosa significhi ma credo renda l’idea). In fondo si lavorava poco: un’ora e mezzo la mattina in palestra e lo stesso tempo nel pomeriggio, nell’acqua della piscina. E per il resto era un cronicario di vecchie signore con le quali ci si ritrovava la sera dopo cena alle 18 e 30 alla macchinetta del caffè ma, oltre alle domande di rito (“lei è un ginocchio o un’anca?”), si faceva fatica a trovare argomenti di conversazione per cui si tornava in stanza fino a che la cecagna ti avvolgeva, salvo svegliarsi la mattina dopo alle 4. Per non dire della signora un po’ fuori di testa che ogni sera, quando il marito la lasciava per tornare a casa, ululava come una lupa ferita “Arturo (o Ugo, non ricordo) non mi lasciare…”.
La mia salvezza in quei giorni è stata questa canzone che ho ripetuto ad libitum sull’iPad (assieme a tutto Selling England by the pound) e che mi faceva sentire vivo. Grazie Genesis (e grazie anche al vino rosso, Cartagho, che rendeva meno insopportabile il tempo che non passava mai).
https://www.youtube.com/watch?v=x1ptsP6Upsc
I shall be released
A sedici anni, dopo vari innamoramenti unidirezionali, trovai finalmente chi guardò con interesse nella mia direzione. (Lo so, suona male, ma è tutta colpa di quell’unidirezionale che mi è scappato prima e che pure mi sembrava così efficace).
Nell’estate del 1969, dopo un mese di agosto a Londra che da quel punto di vista era stato disastroso, a Torvaianica qualcosa successe. Cioè, non successe proprio lì, nel posto di vacanza, successe una volta tornati a Roma. Ma lì, in quell’ameno posto di mare, in quella fine estate conobbi la ragazza (aveva un anno meno di me ma era molto più sveglia – non che ci volesse molto…) che poi per qualche mese (pochi, mi sembra di ricordare tre-quattro, al massimo) condivise con me baci, abbracci e romantiche passeggiate mano nella mano.
Tralascio altri ricordi, che peraltro sono scolpiti nella mia mente, di quei mesi con F. (che rincontrai qualche tempo dopo e fu con lei che feci per la prima volta l’amore – decisamente era destinata a essere la prima…) per arrivare al punto, alla canzone, la nostra canzone (c’è sempre una nostra canzone in ogni storia d’amore che si rispetti).
Ecco, la nostra canzone era questa: I shall be released di Bob Dylan nella versione che la Band registrò su Music from Big Pink. Pezzo stratosferico, non c’è dubbio, rarefatto, da grandi altezze. Solo che a pensarci bene non sono così convinto che F. lo sapesse, che quella era la “nostra” canzone.
https://www.youtube.com/watch?v=cqsm9NhGSiM