
Inutile nascondere che, dopo dieci anni, la spinta propulsiva di questo blog probabilmente s’è un po’ esaurita. (Tra febbraio e marzo sono stato quarantacinque giorni senza scrivere una riga…). Non ho ben capito il perché. Né a dire il vero c’ho pensato più di tanto. Ma un po’ mi dispiace.
Ecco allora che il Covid potrebbe essere l’occasione per ripartire, sfruttando quel MacBook Air così poco utilizzato negli ultimi anni. Potrei scrivere una sorta di diario della malattia, per capirci, pensando non tanto ai lettori “esterni” quanto a me tra qualche tempo, quando magari cercherò di ricordare com’è stata questa malattia per me, e magari non ne ricorderò gran ché.
E allora, cominciamo. Oggi 8 aprile è il secondo giorno di positività, dopo che il tampone del 6 mi aveva visto ancora negativo. (I due tamponi del 6, per essere più preciso, visto che ne avevo fatto uno a casa e poi uno in farmacia ed entrambi avevano dato lo stesso responso.) Ma sentendomi la mattina del 7 una specie di chiavica avevo deciso di andare fare un’altra prova. Ed era stata inequivocabile: senza aspettare i canonici quindici minuti, l’operatrice mi ha detto che era positivo (segno, credo, di una carica virale discreta) e dunque anch’io ero entrato nella grande tribù dei “covidati”.
Dunque, mesto ritorno a casa, segregazione, gran dispiacere per avere costretto Daniela a rinunciare alla sua Pasqua a Lourdes, oltre ad accollarle la palla al piede della mia malattia, messaggi alle (e dalle) persone care, naso chiuso e testa pesante. In realtà questo Covid (e sottolineo questo) per me che ho fatto le tre dosi sembra più che altro una vera e propria influenza old style, solo molto più contagiosa.
Il primo giorno è stato comunque pesantino, soprattutto per l’intasamento totale dalla base del naso in su e per una febbricola intermittente (mai più di 37.4) senza riuscire a leggere molto e con la chicca serale della sconfitta della Roma in Norvegia al 90°. La ciliegina sulla torta, insomma, di una giornata non proprio da segnare con la pietruzza bianca, vissuta con rassegnazione e la gola secca per via del naso chiuso e dunque della necessità di respirare con la bocca. Rassegnazione (in puro stile Galantini: quando sei paziente devi essere paziente) senza particolari angosce o preoccupazioni, tranne quando due persone a me care ieri sera mi hanno chiesto se avessi paura. Solo allora probabilmente ho collegato la mia malattia a quella cosa che ha fatto fuori decine di migliaia di italiani e mi sono chiesto se avessi paura e se dovessi averne. Ma, confesso, anche se avrei ovviamente preferito essere asintomatico e non sto proprio un fiore, paura non ne ho avuta e non ne ho.
Adesso, dopo aver mangiato un bello yogurt greco alle pere, smetto di scrivere e provo a riposare. Nel lettore di cd suona Ray Lamontagne e gli occhi mi pesano un po’. Time to rest, dear diary…