Ho finito di vedere l’altro giorno l’ottava (e ultima) stagione di Homeland. All’inizio avevo “perso un po’ la mano” con le vicende di Carrie Mathison. Mi ero disabituato alla durezza dell’andamento della trama, all’alternarsi quasi senza respiro di aperture e chiusure, di svolte positive e drammatici stop, con le morti inevitabili di comparse, comprimari e anche coprotagonisti che la contraddistinguono da sempre. Ai vicoli ciechi in cui sembra essere finiti e agli spiragli che invece poi si riaprono in un’altalena anche emotiva che a volte per me, ormai vecchietto un po’ fragile, è quasi intollerabile.
Confesso di aver pensato più di una volta di smettere, specie quando veniva fatto fuori un personaggio a cui mi ero affezionato. (Come sempre sono sempre i migliori a morire…). Ma sono andato avanti indomito fino alla fine e sono stato premiato da un’ultima puntata di un’intensità quasi esagerata, piena di colpi di scena e con ripetute accelerazioni emotive, tanto che a un certo punto sembra di stare sulle montagne russe… La ciliegina sulla torta è stato un finale per me del tutto inaspettato. Che certo non si può definire un happy ending, ma che insomma…
Scrittura di alto livello (con qualche buchetto, forse inevitabile). Regia tesa senza un attimo di respiro. Interpretazione – soprattutto in quel mostro di Claire Danes, ma un po’ in tutti – di alto livello. Otto stagioni in dieci anni, dal 2011 al 2020, 96 episodi, con l’età che passa nei visi dei personaggi ricorrenti (quei pochissimi che non sono morti…).
Un po’ sono dispiaciuto che sia finita, tanto che medito di ricominciare dalla prima stagione (ma se sai come vanno a finire le storie, l’effetto deve essere assolutamente minore, comunque diverso), ma forse ho bisogno di qualcosa che sia meno emotivamente coinvolgente. Magari qualcosa che faccia ridere…