
Ma quanto mi è piaciuto “La cena dei coscritti”, l’ultimo romanzo di Michele Marziani, edito dalla BEE (Bottega Errante Edizioni). E quanto è intrigante la scelta dei tanti sotto-finali successivi, che geminano l’uno dall’altro e spostano l’angolo di visuale, riaprendo in qualche modo la narrazione.
Il libro mi è arrivato sabato, era un regalo di compleanno ritardato da parte di mio fratello. (Un regalo, diciamo, “non a sorpresa”; della serie: “che cosa ti farebbe piacere per il 5 maggio?“). Solo che alla libreria dell’Auditorium, dove Angelo l’aveva ordinato, non arrivava mai. “Sa, dicevano i commessi, è una piccola casa editrice…”. Alla fine comunque è arrivato, Angelo me l’ha portato sabato. Io l’ho iniziato la sera stessa e domenica, visto che Daniela sta a Lourdes e dunque sono solo a casa, non mi sono alzato dal letto finché non l’ho finito.
Bella l’ambientazione, in questa valle alpina che si spopola (perché la vita in montagna non è facile) e dove restano, se non solo, principalmente gli anziani. E i tre protagonisti, tutti e tre coscritti del 1942, ma assai diversi l’uno dall’altro, sono gli unici a battersi, a loro modo, contro la costruzione di una diga sul loro torrente che stravolgerebbe l’ambiente della valle. Al grido di “no alla diga, sì alla figa” fanno la loro particolare resistenza, in una vicenda amara (raccontata con brio e ironia) che ci dice molto di loro (non mancano le sorprese), ma anche di noi, di questa società, del nostro futuro.
Termino questa mia “non recensione” col dire che questo libro mi ha aiutato a capire meglio quello che mi aveva lasciato l’amaro in bocca alla fine del precedente romanzo di Michele, quel Lo sciamano delle Alpi di cui non avevo infatti scritto prima nonostante ne avessi ammirato la trama e apprezzato, come sempre, la qualità della scrittura. Entrambe sono storie di “sconfitte dei buoni” (altro che “arrivano i nostri”, quando arrivano sono sempre “i loro” ad arrivare). In quello come in questo lo sfondo è la montagna, le valli del silenzio. Chi prova a resistere alle “magnifiche sorti e progressive” (che ovviamente sono tutt’altro che magnifiche e anche sul progressive c’è da discutere…) è altrettanto ovviamente condannato a perdere, sia qui che lì.
Ma ne La cena dei coscritti il protagonista è uno buono, un eroe-antieroe con il quale è facile indentificarsi, gioire, arrabbiarsi. Nel romanzo precedente invece per me non è stato possibile entrare in sintonia, sim-patizzare con il narratore. Anfio (così si chiama, in famiglia molti nomi omerici) è decisamente antieroe senza essere eroe, è molto anfiocentrico e un po’ meschino; alla fine, nel confronto con il fratello Adrasto, è lui a “vincere” ma dentro di sé è un perdente. È umano, troppo umano. E un po’ troppo “mon semblable, mon frère” per poter essere amato da chi legge (specie se quello che legge è il sottoscritto).
Non mi sento un eroe e non credo nel lieto-fine. Ma mi piacciono gli eroi, i protagonisti positivi; e mi piacciono i lieto-fine. Se non posso avere entrambi, voglio almeno uno dei due. Michele, con molto realismo, ne Lo sciamano delle Alpi decide di fare a meno di entrambi. E io alla prima lettura ho reagito “di pelle”. Oggi lo capisco meglio. Ma Anfio mi sta sempre sulle scatole…