Sto provando a scrivere un racconto sugli ultimi mesi di vita di Dennis B. Aubrey e l’incredibile vicenda che li ha illuminati (non so se questo verbo sia davvero quello giusto, ma forse sì). Ne ho scritto già a suo tempo in un post su questo blog che s’intitolava “La risposta”. Adesso mentre per documentarmi e trarre spunti viaggio sul prezioso blog di questo incredibile personaggio (un blog che s’intitola Via Lucis e che racconta centinaia di chiese romaniche e gotiche in Francia e in Spagna, con foto stupende e testi assai profondi) sono capitato su un post, intitolato De profundis, che Aubrey metteva tra i suoi preferiti, nel quale, a commento delle immagini di una bella chiesa alverniate, lo scrittore ricorda un episodio della sua giovinezza in Francia. Poche decine di righe di racconto, un piccolo gioiello.

Ho provato a tradurlo quel racconto. Se volete e potete, leggetelo in originale a questo link (https://vialucispress.wordpress.com/2013/08/16/de-profundis-dennis-aubrey/). Se no, continuate pure e perdonate la mia pochezza…
“Quando la mia famiglia viveva in Francia vicino alla città di Poitiers, un giorno dopo la scuola venni mandato da mio padre ad aiutare la madre di uno dei suoi lavoranti francesi a portare la spesa a casa. Non mi andava di farlo perché ero ignorante, giovane e pieno di energia. Avevo molte cose da fare nella vita e nessuna di esse aveva a che fare con questo compito. Ma mio padre mi disse di andare e così feci, incontrando l’anziana signora alla porta d’ingresso di casa sua e portando su per le scale la borsa della spesa, che era piccola e leggera, fino all’appartamentino in cui lei viveva al secondo piano.
“Era una veuve, una magra, fragile vedova, probabilmente sui sessant’anni, il che me la faceva sembrare vecchia. In quei giorni c’erano così tante vedove in Francia, vestite sempre di nero, il frutto duraturo di due guerre mondiali. Ero ansioso di farla finita e di tornare alle mie faccende da ragazzo ma, quando posai la spesa nel suo cucinino, mi chiese se volessi un aperitivo. Questo cambiava le cose. In fondo ero quasi un uomo e meritavo di essere trattato come tale. Annuii educatamente in una maniera che speravo fosse da adulto e la lasciai ai misteri della preparazione della bevanda e tornai nel salotto.
“Era una stanza ombreggiata e dal sentore di muffa, piena di vecchi mobili. La grande finestra era coperta da un drappo scuro e pesante. Lo scansai rivelando delle tende di pizzo giallastre dal disegno complicato. Il movimento dei drappi sollevò nuvole di polvere sottile e mentre le particelle di polvere riempivano la stanza, i raggi del sole di un tardo pomeriggio invasero la stanza, che diventò dorata mentre i disegni del pizzo diventavano i disegni della luce. Rimasi a guardare, incantato dalla bellezza della luce e dai granelli di polvere che galleggiavano in un turbinio. Al centro della stanza, proprio dove terminavano i raggi, c’era uno splendido, antico tavolo rotondo di legno. Guardando più da vicino, vidi che il legno aveva sulla superficie migliaia di sottili graffi ricoperti di cera, graffi che assomigliavano alla sottile rete di rughe intorno agli occhi di qualcuno che ami.
“Qualcosa tra l’assoluto silenzio della stanza, l’oro pesante della luce e l’assoluta solitudine la faceva sembrare la casa d’un fantasma. Mi sentivo calmo, come un ragazzo selvaggio toccato dalla mano gentile di una madre comprensiva.
La vedova entrò in questo silenzio, portando con cura due piccoli bicchieri pieni di un liquido rosa. Quando mi porse il bicchiere vidi i suoi polsi e gli avambracci incredibilmente sottili. Le mie mani sembravano enormi e impacciate quando presi il bicchiere. Sollevò lo sguardo e aprì le tende senza dire una parola.
Bevemmo il vino leggermente amaro e provai ad avviare una conversazione. Era strano perché parlavo poco il francese e non avevo assolutamente nulla da dire. Il mio cuore era agitato ma non c’erano parole. Dopo qualche minuto lei andò nell’angolo della stanza e aprì lo sportello di una vetrinetta. Sui ripiani c’era una collezione di foto, medaglie annerite, nastri – nastri rigidi e scoloriti – e una lettera incorniciata. Quest’ultima, riuscii a capire, parlava dell’eroica morte di un uomo. La lettera era datata 1917.
“C’erano foto in bianco e nero incorniciate di un bel soldato giovane con un fucile e una tromba, e dello stesso soldato con una ragazza giovane e graziosa con una lunga gonna scura e una camicetta bianca dalle maniche lunghe allacciate ai polsi. L’attimo dopo guardai la donna in piedi accanto a me, piccola, sottile, fragile. Trovai nel suo viso deboli tracce del viso della ragazza ma anche una bellezza che non avevo visto prima, nascosta dall’età. La stessa leggiadria del viso della fanciulla nella foto, ma in misura maggiore. Deve aver sentito che la guardavo, ma non fece nulla. Continuava a guardare le foto, gli occhi che si muovevano senza alcuna fretta dall’una all’altra, leggendovi qualcosa, qualcosa che non capivo.
“Quella collezione nell’angolo era un monumento a un uomo che era morto quarantacinque anni prima nella prima guerra mondiale all’età di diciassette anni. Quando lui morì lei si arruolò in un esercito tutto suo, un esercito di donne senza uomini, senza mezzi. Da quella che deve essere stata un’unione davvero breve a lei rimase un bambino da crescere da sola, e lui… e queste fotografie… erano tutto quello che le era rimasto per nutrire i suoi ricordi. E forse quello che stava leggendo era un tentativo di ricuperare i ricordi, permettendomi di vederli, questi ricordi e queste memorie, queste reliquie.
“Guardai il suo profilo ed ebbi paura che, se avessi parlato, la mia voce si sarebbe spezzata e avrei rovinato il momento, e così l’unica cosa che potevo fare era guardare. Avrei voluto prenderla tra le braccia, stringerla, toccarla, confortarla, amarla, farla sentire bella, dimostrarle che avevo capito. Ma ero sopraffatto, spaventato, un bambino, non un uomo. E in quella confusione capii che questa donna mi guardava e vedeva me mentre ricordava suo marito. Senza notare troppa differenza tra i miei tredici anni e i suoi diciassette: avrei potuto essere io a morire quarantacinque anni prima.
“Fu la prima volta nella mia vita che capii che sarei morto, che seppi per certo nel mio cuore che anch’io sarei morto un giorno. I ricordi di lei indicavano il mio futuro e il futuro di tutti noi.”