La mattina dopo il grande dolore ti svegli (prima o poi ti sei addormentato) che sei più stanco della sera prima. Non hai mai praticato il pugilato e non sei mai andato knock out, ma se dovessi descrivere come ti senti useresti quella metafora. Sbattuto giù. Atterrato. Fuori gioco.
Ti senti gli occhi gonfi. Ti guardi allo specchio: hai gli occhi gonfi. E non per caso: hai cercato di resistere quando Daniela te l’ha detto, ti sei allontanato (non sia mai ti veda qualcuno…) ma poi hai pianto come una vite tagliata; quando dopo pranzo ti sei messo a riposare sei crollato in un sonno buio come la notte e ti sei risvegliato in un mare di lacrime: non ricordi che cosa hai sognato ma non è difficile indovinare quale fosse il tema; in serata hai annaffiato con cura orto e giardino, come se si trattasse di un giorno normale, ma era come se fosse un altro a farlo. E poi a cena hai bevuto scientemente un po’ di più e non è stata una grande idea.
Adesso, sono le sette di mattina, esci che devi portare Chicca a fare la passeggiatina mattutina ad expletandum. Passi sotto il portico di dietro per prendere il contenitore dei rifiuti in vetro e metallo da portare giù all’ingresso ed è una mazzata. Il cestino rosso che fungeva da cuccetta, la ciotola con l’acqua, quella del cibo, il cestone con il tessuto-non-tessuto in cui spesso s’infilava per riposare il pomeriggio. Gli occhi ti si riempiono di nuovo. Passeggi e piangi. Prima o poi smetterai, lo sai, e il pensiero quasi ti disturba.