Al termine della passeggiata mattutina con Chicca, prima che inizi il sentiero nel bosco, c’è un grande prato che viene utilizzato per fare fieno e dar da mangiare ai cavalli che vivono nel terreno accanto. Dalla stradina si scende al prato per un accenno di sentiero che passa sotto le fronde di un albero che fanno quasi da sipario, da parziale schermo rispetto a quello che c’è al di là. Un quadretto, questo delle fronde e del prato sullo sfondo, che sono solito fotografare quasi tutte le mattine, con qualsiasi luce.
Interrogandomi sul perché del fascino che questa inquadratura e questo posto hanno su di me, la risposta che mi sono dato è che probabilmente è così che mi immagino (o forse mi auguro sia) il “momento finale” – naturalmente quando sono “in buona” e non penso alla morte come alla fine di tutto, a un buio totale nel quale fatalmente la coscienza di sé si spegne e con la coscienza si spegne tutto il mondo.
Sì, quella fronda che per passare ti chiede solo di chinarti un po’, o di spostarla con la mano, ma che, fino a che non lo fai, da buona parte dell’orizzonte il guardo esclude, mi ricorda un velo che fa vedere e non fa vedere. Vedi il prato e parte della costa di fronte, intravedi qualche albero, senti il Farfa che scorre non lontano e magari anche il fruscio del vento, quando c’è vento, ma se non passi al di là di quella fronda ti resta solo un’idea di paesaggio, ti manca il quadro completo. Per avere il quale però devi andare dall’altra parte. E qui – tornando alla metafora – sta il problema…