«E chi diavolo è questa Jillsy Sloper», potrebbe dire a questo punto uno dei miei ventitré affezionati lettori/trici. E io potrei (riba)dire, indicando il titolo, «Jillsy Sloper sono io, mio/a caro/a». Con il che, ammetto, la questione non sarebbe certo chiusa, perché la domanda non manca di una sua sostanza. E allora aggiungo che per sapere chi è Jillsy Sloper (e perché io sono Jillsy Sloper) occorre: a) avere letto Il mondo secondo Garp di John Irving, b) avere buona memoria, c) conoscere me. (C’è anche un modo più semplice: finire di leggere questo post…)
Sì, perché dei tanti e tanti personaggi, uomini donne e persone dal sesso incerto, che affollano le pagine del torrenziale capolavoro dello scrittore americano, la suddetta Jillsy non è certo dei più importanti, anche se è protagonista di quattro o cinque pagine che aiutano molto a capire Irving. Jillsy arriva a pagina 377 della mia edizione (la prima edizione Bompiani del 1979) che di pagine totali ne conta oltre 500, per l’esattezza 511 (scritte peraltro con un corpo piccolino, tanto che ogni pagina consta di 45 righe). Fa di mestiere la donna delle pulizie, Jillsy, nell’ufficio dell’editore del protagonista del libro. Si chiama John Wolf, l’editore, e ha un metodo infallibile per scoprire potenziali bestseller: li fa leggere alla suddetta Jillsy: se piacciono a lei, piaceranno a molti.
E la mattina del lunedì (l’editore le aveva lasciato una copia del manoscritto il venerdì sera) la donna delle pulizie si presenta in ufficio stravolta.
“D’un tratto ecco comparire Jillsy, con gli occhi arrossati, tutta scatti come uno scoiattolo, con il manoscritto sgualcito tra le rozze mani brune.
«Oddio» disse Jillsy. Roteò gli occhi, scosse il manoscritto.
«Oh Jillsy» disse John Wolf. «Mi dispiace».
«Oddio!» esclamo Jillsy. «Mai passato un più brutto weekend. Non ho dormito, non ho mangiato, non sono andata al cimitero a trovare i miei cari, parenti e amici»”.
Ha passato tutto il weekend a leggere, Jillsy, respinta da quelle pagine che però non le riesce di mollare. E quando l’editore le chiede perché abbia continuato a leggerlo, Jillsy spiega. «Per lo stesso motivo per cui leggo qualsiasi cosa. Per vedere che cosa succede». E ancora: “«In tanti libri non succede niente» – disse Jillsy. «Oddio, te ne accorgi subito che non succederà niente. Questi sono la maggior parte. Poi ci sono quei libri che già sai cosa succederà dopo, e quindi è inutile che li leggi, anche quelli. Questo qui invece,» dice Jillsy, «questo libro è morboso a tal punto che tu sai che dovrà succedere qualcosa, ma non riesci a immaginarti cosa. Devi essere morboso anche tu, per immaginare quel che succederà dopo, in questo libro qui» disse Jillsy. «Sicché l’hai letto per vedere come andava a finire?»«Un libro si legge forse per qualche altro motivo?» disse Jillsy Sloper”.

Irving ai tempi di Garp
Ecco, in queste poche righe Irving parla del suo “Il mondo secondo Garp” (del resto il manoscritto che Jillsy Sloper ha letto in quel tremendo weekend, scritto a sua volta proprio da Garp, s’intitola, in un gioco di specchi, “Il mondo secondo Bensenhaver”); dice la sua sull’annosa querelle relativa al primato tra scrittura e narrazione (non a caso lo scrittore preferito da Irving è Dickens); gioca con il lettore promettendogli nelle pagine a venire ulteriori colpi di scena dopo i tanti già accaduti, tra cui quello che, passata da poco la metà del libro, sconvolge definitivamente la vita di tutti i protagonisti. E sconvolge anche chi sta leggendo quelle pagine: ve lo garantirebbe Jillsy Sloper, sono sicuro, e ve lo posso garantire anch’io. Che, lo ribadisco per chi avesse poca memoria, sono Jillsy Sloper.
P.S. Per chi fosse interessato, e perché Irving conosce le regole della narrazione e non lascia mai un personaggio a metà, riporto anche le poche righe con le quali, dieci pagine più avanti, lo scrittore ci racconta qualcosa di più di Jillsy e, già che c’è, anche come prende congedo dal romanzo (e dalla vita).
“… Jillsy Sloper aveva, in realtà, un ottavo di sangue negro nelle vene, essendo figlia di un bianco e di una mulatta. La sua pelle era appena bruna, come un asse di pino un po’ sporco. Aveva i capelli lisci, corti, d’un nero lustro che cominciava a ingrigire; portava una rozza frangetta sulla fronte lustra, rugosa. Era bassa di statura, con lunghe braccia; dalla sinistra le mancava l’anulare. Aveva una profonda cicatrice sulla guancia destra e si poteva arguire che quel dito le fosse stato amputato nel corso della stessa battaglia, dalla stessa arma, magari durante una lite coniugale, poiché c’era certo un matrimonio fallito nel suo passato. Lei però non ne parlava mai.
“Aveva quarantacinque anni ma ne dimostrava una sessantina. Il suo tronco sembrava quello di una cagna labrador che sta per sgravarsi, e camminava strascicando i piedi perché questi le facevano eternamente male. Avvertiva da tempo un gnocco alla mammella, ma non era mai andata a farsi visitare, e di lì a qualche anno, seguitando a ignorare quel nodulo, sarebbe morta di cancro”.
E qui potrei chiosare che forse non sono Jillsy Sloper…