Ho scritto i primi 19 capitoli di questa “saga” sei anni fa. Poi, dopo aver scritto di Blue di Joni Mitchell, ho smesso. Un po’ era giusto così, perché dopo Joni c’è il diluvio; un po’ è successo evidentemente perché mi ero stufato della serie (in fondo mi succede sempre così). Ma ieri, mentre scartabellavo tra i vecchi ellepì, sono finito su alcuni album di Kate Bush. I primi due sono andati via lisci. Il terzo della lista no. Il terzo ha preteso di essere risentito. E più volte.
Si tratta di Hounds of love, un disco del 1985, probabilmente il suo capolavoro. La prima facciata con cinque canzoni, una più bella dell’altra. La seconda con un “concept” fatto di sette pezzi, dal titolo The ninth wave (La nona onda), che sembra riguardare “una donna che si ritrova a galleggiare in mare osservando le stelle e che perde poco a poco lucidità”, un insieme a volte un po’ macchinoso, ma con momenti davvero speciali. Tra le canzoni della prima facciata, che uscirono poi via via come singoli scalando le classifiche, è difficile scegliere la più bella. Kate Bush le accompagnò con dei bei video, tra i quali emerge quello di Cloudbusting, che vede come protagonista Donald Sutherland assieme alla stessa KB nel ruolo del figlio.
Artista completa – compone, suona, canta, recita, balla – Kate Bush è un po’ il contraltare femminile di un altro personaggio importante di quegli anni, quel Peter Gabriel con il quale cantò la splendida Don’t give up. Le sue musiche non sono mai banali e neppure facilissime; a volte, chiedono attenzione e partecipazione (e in questo uno un po’ si domanda che c’entrino con gli anni 80); ma il mondo di Kate la maga, se riesci a entrarci, non ti lascia più andare via.