Una delle cose che amo di più e che solo da poco mi concedo è quella di guardare un film senza sapere nulla (o comunque il meno possibile) della sua trama. Quindi niente recensioni, se posso, o comunque solo uno sguardo a volo d’uccello, per cercare di essere uno spettatore il più vergine possibile. Del film che ho visto stasera mi ricordavo solo qualche polemica a Venezia sul suo schematismo, anche se l’altro ieri sera un’amica a cena diceva che è stato il film più bello che avesse visto negli ultimi tempi. Beh, la visione mi ha lasciato un po’ perplesso. Di certo so solo che non è certo il film più bello che abbia visto negli ultimi tempi.
Sto parlando de L’insulto, il film del libanese Ziad Doueiri, ambientato in una Beirut in cui le ferite della guerra sono ancora calde e dove una polemica per futili motivi tra un cristiano libanese e un palestinese sfocia in un un processo, poi pompato da un avvocato assai politicizzato e dal circo mediatico, e rischia di far esplodere una situazione di suo già assai tesa. Non discuto le buone intenzioni del regista, che sottolinea più volte come nessuno abbia il monopolio del dolore, come ciascuno abbia le sue ragioni e i suoi torti e come solo guardando avanti e non indietro si possano davvero cambiare le cose. Ma è proprio lo schematismo della rappresentazione che mi ha lasciato perplesso. I difetti, a mio modo di vedere, sono nella sceneggiatura, dove per tre quarti del film in realtà l’equilibrio tra le parti non c’è e il regista sembra prendere decisamente le parti di uno dei contendenti, salvo poi rigirare il tutto nel quarto d’ora finale, rivelando un segreto assai doloroso del passato dell’altro che ne giustificherebbe la durezza eccessiva nei comportamenti. Anche l’ultima scena, dopo la sentenza, con i protagonisti che si guardano con un accenno di sorriso quasi complice, devo dire che non mi ha convinto granché (anche se a quel punto era quasi impossibile trovare un finale convincente).