Il genio e la paura di non essere all’altezza

Ieri stavo nello studio e cercavo un cd da sentire. Avevo da poco letto l’ultimo romanzo di Michael Connelly, The Black Box, in cui la colonna sonora questa volta non era Frank Morgan ma, assieme a George Cables, l’ultimo Art Pepper. Con il suo nome nella mente ho cercato alla P. Ho tralasciato i due splendidi cofanetti che erano di mio zio Alberto Alberti e che Marco mi ha dato, e ho ritrovato un disco che ho comprato qualche anno fa e che mi era molto piaciuto: Art Pepper  meets the Rhythm Section, con Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones. Musica fantastica, puro godimento: Pepper sul canale sinistro dello stereo, il trio su quello destro, un interplay di altissimo livello.

APE dire che i quattro suonarono assieme solo in quella occasione, il 19 gennaio del 1957.  “La sessione iniziò nel modo peggiore possibile – scrive Lester Koenig nelle note di copertina –. Art non ne aveva saputo nulla fino alla mattina. Tutti gli accordi erano stati presi da sua moglie Diane che non voleva che si agitasse troppo per la preoccupazione. Non suonava da un paio di settimane, il suo sassofono era quasi fuori uso e non aveva idea di che cosa avrebbero suonato. Per di più tutti avevano fatto tardi la notte prima e s’iniziò in ritardo. Ma dopo la prima prova di You’d be so nice to come home to, ogni cosa andò al suo posto. Come dice Art: ‘Ero così ispirato dalla sezione ritmica che mi sono dimenticato delle condizioni avverse. Non avevo mai suonato la maggior parte dei pezzi e mi sono ricordato dei tempi prima della guerra, quando sull’Avenue suonavo ad orecchio. Altrimenti non ce l’avrei fatta’.  E ancora: ‘In qualche punto il mio suono può sembrare un po’ aspro, come se stessi urlando,  ma alla fine ho capito che quando suono devo farlo esattamente come lo sento. Preferisco che esca fuori l’emozione, piuttosto che cercare la perfezione’”.  E dire che a un orecchio profano come il mio quello che esce da questo disco assomiglia molto alla perfezione…

Poi siccome da cosa nasce cosa, mi sono ricordato di quella volta che con Alberto si parlava di jazz e lui, non apprezzando il mio apprezzamento da neofita per il trio condotto da quel pianista famoso quasi più per il caratteraccio che per il suo stile (che peraltro io continuo ad amare, soprattutto quando interpreta gli standards), mi disse che avrei fatto meglio a sentire Cedar Walton e il suo trio e mi raccontò una storia che per certi versi ricalca quella di Pepper con la Rhythm Section. Una storia di genio e paura di non essere all’altezza.

SGLa storia di uno dei dischi da lui prodotti, quello cui forse era più affezionato: quel Love is the thing, ovviamente della Red Records, in cui Steve Grossman, sax tenore , dialoga con Cedar Walton, Billy Higgins e David Williams. Grossman, che pure era (ed è) un musicista straordinario, raccontava Alberto, grande affabulatore, era restio ad accettare, aveva quasi paura a suonare assieme a quei tre. Ma Alberto di quell’idea andava assai fiero e, anche se c’era voluto molto a convincerlo, alla fine ce l’aveva fatta. E il risultato – aggiungo io – vale tutte le fatiche che comportò mettere assieme quei quattro. Ascoltare per credere. Già basta l’iniziale Naima di Coltrane, con un Grossman davvero ispirato e il gioco di piatti di Higgins a far capire che siamo davanti a qualcosa fuori dal comune. Il resto è tutto all’altezza.

Un pensiero su “Il genio e la paura di non essere all’altezza

  1. L’ha ribloggato su enricogalantinie ha commentato:

    Mi è bastato rileggere questo post per sentire la risata trascinante e la voce pastosa e roca di Alberto prendersela con qualcuno e farlo nero – a parole, s’intende –. O ricordare il racconto del mio amico Gaetano, allora sindaco di una piccola grande città emiliana, quando in un locale della sua città dove era in programma un concerto jazz, venne apostrofato da un signore che non conosceva (e che dal suo racconto era evidentemente Alberto) che gli diceva ironicamente in bolognese non so più cosa, ma sempre relativo al jazz. Perché il jazz era la sua vita e la sua vita era jazz. Buffo, la morte ti porta via le persone fisiche ma, finché dura la memoria, quelli che hai conosciuto e ai quali hai voluto bene (anche se non li frequentavi così spesso come avresti voluto) tornano all’improvviso sull’onda di una musica, vedendo un film, visitando un posto o leggendo qualcosa.
    Piano piano si fa sempre più forte in me la consapevolezza che questo blog a me serve soprattutto a questo: a fissare sulla pagina del computer pezzi di vita che non torneranno più ma che tornano sempre quando li rileggo, per caso o per scelta.

Scrivi una risposta a enricogalantini Cancella risposta