Ho appena avuto modo di scrivere della presa di coscienza (un’esperienza che credo, oltre a me, abbiano fatto tutti i frequentatori degli arrivi internazionali di Fiumicino in quel mattino di fine inverno inizio primavera del 1982) della mia terrestrità, oserei dire terragnità, se mi si passa il termine, davanti alla (almeno apparente) semidivinità di Marco e Monica che arrivavano, colmi del calore della Polinesia e incuranti del freddo romano, a raccontarci di alberi che davano il pane, squali con cui nuotare fianco a fianco, interminabili lingue di sabbia bianca su cui camminare al tramonto, come neppure nello spot di uno stilista perverso.
Questo ricordo ne porta con sé un altro, per certi versi analogo. Molti anni dopo il 1982, durante una vacanza a Moso, in Val Fiscalina, una mattina andiamo in Valle Aurina per fare una gita con Diego, che da trent’anni passa lì il mese d’agosto. Lasciata la macchina alla fine della strada a Casere, a circa 1600 metri, ci dirigiamo in gruppo verso il Rifugio Tridentina, a 2400 metri e rotti, sotto il Picco dei Tre Signori, la montagna più alta della zona, ben oltre i 3.400.
Tralascio tutte le note turistiche, tranne la segnalazione di un impressionante crocefisso nella chiesetta di S.Spirito poco dopo la partenza, e arrivo al dunque.
Durante la salita, guardando in alto verso il Picco, vediamo più volte una fila di omini che attraversano il ghiacciaio. Più tardi, dopo aver mangiato qualcosa (forse più di qualcosa) al Rifugio, decidiamo di arrivare alla Forcella, trecento metri più in alto, lungo il sentiero che porta in Austria. Non so voi, ma per me ricominciare a salire dopo aver mangiato è assai tosto. Ricarburare un passo accettabile è decisamente complicato.
Ma insomma, com’è, come non è (come direbbe Toto) in un modo o nell’altro, stando attenti (io) a non calpestare la lingua, arriviamo alla forcella. Il panorama è bellissimo, con due stambecchi accovacciati su una roccia un po’ più in lato a immagazzinare il caldo del sole, con il vento freddo che viene attraverso le rocce dall’Austria, con l’ultima neve ghiacciata lungo il sentiero in un punto dove non batte mai il sole. Ed è allora che c’è l’apparizione.
Gli omini di cui sopra, scesi dal ghiacciaio, ci passano accanto. Noi (io) stremati (stremato), loro freschi come se iniziassero allora la passeggiata. Sette giovani semidei crucchi, maschi e femmine, alti, possenti, elastici nel loro passo (sembra di sentire la voce interiore che dà il ritmo “hop, hop, hop”) instancabili dietro la guida, che è una star dell’alpinismo mondiale, dopo Messner il più famoso arrampicatore italiano (tredici ottomila metri senza ossigeno, discese con gli sci di quelle da leggenda, il Cerro Torre in 17 ore). Hans Kammerlander, ché di lui si tratta, vive a Campo Tures, all’inizio della Valle Aurina, dove i concittadini gli hanno già dedicato un monumento, e per vivere fa la guida alpina. Uno di noi, forse proprio Diego, lo chiama. “Hans” gli fa. Lui si volta, sorride e continua nel suo passo. Chissà dove stanno andando. E chissà se smetteranno mai di andare.
Noi terragni, intanto, iniziamo la discesa verso la macchina. Noi, per oggi, abbiamo già dato.

