Tempo fa mi è capitato di intravvedere, zappando con il telecomando (nettamente meno faticoso questo gesto rispetto all’omologo nell’orto…), una scena di un filmazzo con Eddie Murphy e Owen Wilson, un’improbabile storia di spionaggio con venature comiche. La scena che ho visto riguardava una sorta di test (fatto a sua insaputa) da alcuni agenti segreti americani a E.M., che nel film interpretava un famoso attore hollywoodiano, per vedere se potevano arruolarlo per una missione nell’Est.
La faccio breve. Alla fine del test lo dichiaravano abile e tra le motivazioni di questa sua “abilità” c’era quella del suo sapersi buttare, seppur con giudizio, anche nelle situazioni complesse e a rischio. La gente si divide in due tipi – diceva O.W., che nel film faceva l’agente reclutatore –: i “perché” e i “perché no”. Quelli che prima di fare una cosa ci pensano cento volte, e poi non la fanno: i “perché”, appunto. E quelli che invece sanno correre il rischio, senza essere per questo dei kamikaze: i “perché no”.
Nella sua elementarità questa tassonomia mi sembra assai efficace. E mi ci ritrovo pienamente. Invidio i “perché no” ma io sono un “perché”. Da sempre. Un cagadubbi, detto in altri termini. Uno che prima di fare una cosa pesa i pro e i contro e poi di solito non la fa, uno che ama lasciarsi decidere. Lo so. Non è che mi piaccia poi tanto, o ne sia orgoglioso, ma a 59 anni compiuti, ormai pensare di cambiare è un pio desiderio.
Non è un caso che, tanti anni fa, passeggiando per il cimitero degli Inglesi, davanti alla tomba di John Keats (dove la lapide recita: Here lies one whose name was writ in water) elaborai per la mia un epitaffio che suonava così: Qui giace uno che ebbe una parola sola: forse.
“il grande forse”
joe meno
edizioni e/o
…non so com’è….ma puoi provare
ma è un forse più grande del mio?
forse…
L’ha ripubblicato su enricogalantinie ha commentato:
Dovessi – volessi – riscriverlo oggi, questo post, lo riscriverei tale e quale.