“Prima il dovere, poi il piacere”, diceva mio nonno che amava i proverbi. (E di un altro che spesso ricordava – “guardare e non toccare / è una cosa da imparare” – ho sempre pensato che non mi piaceva, ma, da bambino complessato e timido qual ero, la ribellione non era tra le opzioni possibili…).
Così oggi, in trasferta a Firenze per un’iniziativa del sindacato del terziario sulla sicurezza sul lavoro, una volta finita la riunione, sono andato a vedere la bella mostra a palazzo Strozzi su “Denaro e Bellezza”, la Firenze dell’epoca dei Medici, di Botticelli e di Savonarola. Finita la visita, visto anche che non avevo mangiato alcunché, ed erano quasi le quattro, mi sono ricordato che Palazzo Strozzi ha un’uscita anche su via Tornabuoni. E ho fatto un tuffo nel passato.
Trenta metri ed ecco Procacci. Come quando, verso la fine degli anni ottanta, andavo a trovare Gianni e Paola, che abitavano a Bellosguardo, e la mattina tarda si scendeva in centro e si finiva inevitabilmente per andare lì, da Procacci, a mangiare due panini tartufati (con le “t” rigorosamente aspirate) accompagnati da un calice di prosecco, seduti a un tavolino di questo piccolo locale che sta li dal 1885 e fa i più paradisiaci paninetti (diminutivo più vezzeggiativo, entrambi strameritati) dell’orbe terracqueo.
E 166 anni dopo (dico in astratto: per me dovevano essere solo una ventina d’anni che non ci andavo) il locale non era cambiato di una virgola e il gusto dei panini era esattamente come lo ricordavo. Fantastico: delicato ma penetrante e avvolgente.
Allora – voglio dire: vent’anni fa – avevo probabilmente ancora qualche capello in testa e anche un po’ di illusioni in più. Adesso ho meno di tutto, ma non fa niente: è parte del gioco. E finché ci sono cose belle come i panini tartufati di Procacci, è un gioco che mi piace giocare.