In questi giorni sulla chiavetta che nutre la mia autoradio ho messo qualche nuovo folder preso dall’apposito hard disk che trabocca di musica (non vivrò abbastanza per ascoltarla tutta…). Una di queste cartelle ha un titolo assai evocativo: America. The complete greatest hits.
E di evocativo non c’è solo il titolo. C’è anche e soprattutto la musica. Non sono mai stato un fan sfegatato degli America ai tempi. Le loro canzoni mi piacevano, è chiaro, a chi non piacciono? Ma tra gli originali e le copie ho sempre preferito gli originali. E così, se stravedevo per CSN&Y, per quei tre imperdibili album che, a cavallo dell’inizio dei Settanta, ci hanno dato perle imperdibili e fatto sognare la California e gli Stati Uniti in genere e un altro mondo che allora sembrava possibile (soprattutto se eri un musicista un sacco alternativo e vivevi nel Laurel Canyon…), gli America erano per me onesti artigiani della musica o poco più, e la discendenza dal trio (poi quartetto) di cui sopra troppo evidente.
Ma oggi, quarant’anni dopo (Maro’, quanto mi sono fatto vecchio…) scegliere la cartella America nell’autoradio e trovarsi su una Duetto rosso lanciata nel sole della costa del Pacifico con il vento nei capelli (sic) è stato un tutt’uno. Già l’inizio con Horse with no name non è niente male. Ma è dal pezzo numero 5 che inizia una carrellata di melodie e armonie davvero fantastica, puri anni settanta: Ventura Highway, Don’t cross the river, Only in your heart, Muskrat love, Another try, Tin man, Lonely people, Sister golden hair. Poi, certo – e la compilation lo testimonia –, arrivano gli anni Ottanta e in un pezzo (peraltro nemmeno orrendo) sembra di sentire gli Abba.
Tempo di cambiare cartella. O di rimettere questa dall’inizio. In quella logica del circolo virtuoso che tanti anni fa mi spinse a fare una cassetta con una sola canzone (in modo che quando la mettevo nel lettore, sempre quella c’era…): era Paul McCartney, con (Don’t say) Goodbye tonight, pezzo che m’intrippò oltre misura…