Gli album della mia vita #17. L’Inghilterra a peso

Ho ricomprato (e riascoltato) nelle ultime settimane tutti (o quasi) gli album dei Genesis degli anni settanta, quelli in cui c’erano ancora Peter Gabriel, e anche quelli registrati prima che se ne andasse pure Steve Hackett. Fino al doppio live Seconds Out, insomma.

Album che avevo già posseduto (fino a The Lamb lies down on Broadway), prima che la mia conversione un po’ khomeinista alla musica classica a metà dei 70 mi portasse a vendere tutto e non comprarne più di nuovi. Qualche anno dopo sarei diventato meno estremista, ma oramai i Genesis erano diventati un’altra cosa e, pur continuando ad apprezzare i singoli pezzi (ho ascoltato per mesi Follow you follow me quasi come un tormentone…), di album non credo di averne comprati più.

Risentendo i vari cd ho avuto una conferma e una smentita dei miei ricordi. Premessa: tutti gli album dei G. rappresentarono delle pietre emiliane per il giovane Enrico. Ma due lo furono più degli altri. Ricordo che all’epoca sbroccai per Selling England by the pound. E che The Lamb lies down on Broadway mi piacque forsanco di più. Oggi no. Confermo il giudizio sull’Inghilterra venduta a peso, mentre l’ovino nuiorchese non mi convince più come un tempo.

Il fatto è che Selling England by the pound è praticamente perfetto. Non riesco a trovargli difetti. La felicità compositiva è sempre strabordante. Dal primo all’ultimo pezzo è un susseguirsi di invenzioni melodiche e ritmiche una più coinvolgente dell’altra, con cambi di tempo e aperture sublimi, e temi che si ripetono e si citano da un pezzo all’altro. Dall’attacco di Dancing with the moonlight knight ripetuto nel finale di Aisle of plenty, passando per le melodie di I know what I like e More fool of me, attraverso le cavalcate prog di The battle of Epping Forest e The cinema show e, soprattutto, Firth of fifth.

È difficile scegliere qualcosa in un album che, come forse nessun altro di quegli anni (giusto le Tubular bells di Mike Oldfield, ma quello è un altro discorso) è un tutt’uno pressocché perfetto. Ma devo dire che ancora oggi, quando ascolto Firth of fifth – dall’attacco di piano quasi Brahms-Bachiano di Banks, all’intermezzo di flauto di Gabriel, all’epico  solo di Hackett, contrappuntato dai piatti e dai ritmi spezzati di Collins e dalle “fumate” di basso di Rutherford –, quando ascolto questo pezzo, insomma, devo confessare che godo come una spia, ancora oggi, anche perché questa musica (come tutto il miglior prog) sollecita quella parte di me che non ha paura del lato sentimentale, quando non addirittura trombon-sentimentaloide che c’è in tutti noi (riduco il tiro: in alcuni di noi).

E in fondo godere è la ragione per cui, di solito, si ascolta (meglio ancora: io ascolto) la musica.

2 pensieri su “Gli album della mia vita #17. L’Inghilterra a peso

  1. indubbiamente uno dei miei dischi più ascoltato, ricordo bene il cartone dell’LP consunto. mentre leggevo il post non riuscivo a mettere insieme titolo dei pezzi alla musica, anche perchè di solito mettevo il disco sullo stereo e lo ascoltavo da cima a fondo ma oggi aiutata da youtube ho riconosciuto ogni singolo brano dai primi nanosecondi, concordo un album bellissimo! impossibile dimenticare.

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